Dimenticata, sanguinosa Rosarno

16 Febbraio 2010 0 Di luna_rossa

Storie di violenze e di accoglienza, storie di razzismo mafioso da ku klux clan e di integrazione lungimirante, storie di contraddizioni dentro il popolo e di coraggiose scelte istituzionali. A Rosarno la caccia ai neri africani è partita che sono venti anni. Un bilancio che è un bollettino di guerra, con diversi morti e decine di feriti. Episodi gravissimi, che ritornano faticosamente alla narcotizzata memoria calabrese, come la strage dell’11 febbraio del ’92, con due algerini uccisi a colpi di pistola nelle campagne della Piana. E quella del febbraio del ’94, con un ivoriano cadavere e due feriti gravi. Il corpo di un altro africano è stato trovato in decomposizione due anni dopo. E chissà quanti altri morti mai ritrovati, quanti giovani dispersi che nessuno cerca. Una guerra, da sempre legata al racket dello sfruttamento delle braccia, che ha nelle rivolte del 2009 e del 2010 due momenti intensi di una lunga e ventennale spirale di violenza. Morti dimenticati. Colpevolmente.

Il doppio volto di Rosarno
È terra di profondissime contraddizioni quella della Piana di Gioia Tauro. Regno di ‘ndrine feroci, ma anche teatro di grandi battaglie civili. Per anni le cosche hanno terrorizzato i braccianti stranieri per schiavizzarli. Lo raccontano le cronache impolverate e rimosse da tutti. Ma Rosarno è anche altro: dai primissimi anni 90 le associazioni del volontariato laico e cattolico si sono impegnate per aiutare gli immigrati sbarcati sulla Piana. Ad ogni episodio di violenza è seguita una reazione della società civile. E Rosarno è anche tra i primissimi paesi calabresi ad avere progettato l’accoglienza con politiche di sostegno ai migranti, già nel ’95, grazie al tenace e combattivo sindaco comunista Peppino Lavorato. Per ben nove anni la ‘ndrangheta è stata arginata dalle due giunte di sinistra, col contributo del mondo del volontariato. Il riconoscimento politico, la mensa, gli aiuti, l’assistenza, il possibile, le richieste di finanziamenti a Regione e governo, una generale attenzione al mondo dei braccianti immigrati ha contraddistinto il periodo a cavallo tra gli anni ’90 e il nuovo millennio. Un’attenzione che è mancata negli anni successivi, quando la questione migranti è diventata sempre più un’emergenza ciclica. Fino alle ultime due rivolte, forse non casualmente scoppiate con l’amministrazione in mano a un commissario prefettizio.

Nel 1990 inizia il tiro a bersaglio
Che ci sia la ‘ndrangheta dietro la schiavitù degli africani nelle campagne calabresi è cosa risaputa da decenni. Una strategia terroristica, per piegare i lavoratori stranieri alle condizioni disumane di sfruttamento nei campi, con minacce, botte, azioni squadristiche, e fucilate. Come e peggio che nel gennaio del 2010. Nessuno ricorda i primi attentati ai danni dei migranti nel rosarnese, a partire dal 1990. Nella zona arrivano le prime comunità di braccianti stagionali, in prevalenza magrebini. La gente li accoglie, riescono a trovare delle sistemazioni dignitose, ma c’è chi preferisce il piombo. La sera del 10 settembre ’90 a subire una gambizzazione a colpi di pistola è il giovane 28enne Mohamed El Sadki. Stessa sorte tocca un anno dopo, il 23 dicembre del ’91, all’algerino 24enne Mohammed Zerivi. Il 27 gennaio del ’92 i due giovani algerini Malit Abykzinh, di 24 anni, e Boumtl Rabah, di 27 anni, trovano sulla porta di casa un gruppo di ladri intenti a forzare la porta dell’appartamento con una sbarra di ferro. Sorpresi dagli africani, i malviventi reagiscono sparando: il più giovane finisce in ospedale con ferite gravissime all’addome, l’altro con una mano trapassata dai proiettili. È solo uno dei tanti episodi che si verificano in quel periodo, di cui è rimasta traccia per gli sviluppi imprevisti dell’azione. Decine e decine di atti di violenza sono però passati sotto silenzio. Ma perché quei furti in case poverissime? Perché quelle sparatorie? A volte si tratta di rapine, a volte di intimidazioni, a volte di puro razzismo. Colpire i neri diventa quasi un rito di iniziazione per i giovani aspiranti ‘ndranghetisti della Piana. C’è solo una regola: i neri devono subire in silenzio.
A fine gennaio l’arresto di un giovane del paese per le rapine agli africani fa salire la tensione. Sono di nuovo gli algerini il bersaglio del piombo. Tre di loro vengono avvicinati nella notte dell’11 febbraio nelle strade di Rosarno. Un uomo propone loro un lavoro in campagna e li fa salire in auto. È una trappola. Giunti in una zona isolata lungo la strada per Laureana di Borrello, scatta l’agguato a pistolettate. Due restano cadaveri – si tratta dei ventenni Abdelgani Abid e Sari Mabini – il terzo, il giovane 19enne Murad Misichesh, riesce a fuggire nonostante le ferite al collo. Qualcosa scatta in città, si commemorano i morti, la gente è sgomenta e lo fa sentire. Ma il ricordo di quei giorni non lascia traccia. È lunga la scia di sangue migrante sulla Piana. Il 18 febbraio del ’94 tocca al 41enne ivoriano Mourou Kouakau Sinan, vittima di una sparatoria insieme a Bama Moussa, di 29 anni, ed Homade Sare, di 31, entrambi con passaporto del Burkina Faso. Il primo resta cadavere, colpito da una fucilata in pieno petto, gli altri due feriti lievemente. L’agguato è portato a termine di fronte a un casolare diroccato nelle campagne di Rosarno.

La primavera in Comune
È nel 94 che Lavorato prende in mano Rosarno. Il popolo lo elegge, ed è una scelta contro le cosche. Perché Lavorato viene dal Pci, è da sempre in prima linea contro la ‘ndrangheta. Negli anni 70, con le grandi battaglie del movimento antimafia calabrese. Nell’infuocata campagna elettorale del giugno 1980, che si è conclusa con l’uccisione del segretario comunista di Rosarno Giuseppe Valarioti dopo una netta affermazione alle elezioni. Lavorato ha sempre continuato a contrastare le ‘ndrine, anche quando in paese nessuno gli rivolgeva apertamente la parola. Ha continuato a farlo dai banchi del Parlamento, con grande forza. È il novembre del ’94. Ad avere paura sono le cosche, che approfittando della notte di Capodanno lanciano una clamorosa offensiva in stile colombiano: colpi di fucile mitragliatore contro i palazzi delle istituzioni, dal Comune alle scuole pubbliche. Una legislatura che inizia col botto. Non è la prima minaccia, e non sarà l’ultima.

La Festa dei popoli
La realtà è delle più difficili, inutile negarlo. Eppure quella presenza istituzionale ha rappresentato un sicuro riferimento. Lo è stato di certo per i primi migranti, arrivati sulla Piana di Gioia Tauro per sostituirsi alle braccia calabresi negli aranceti, una presenza via via sempre più sistematica e numerosa. Ci sono le violenze dei gruppi di giovani criminali, ma non mancano i segnali di apertura e di accoglienza. Come la Festa dell’amicizia e della solidarietà tra i popoli che per nove anni ha visto rosarnesi e africani insieme in piazza nel giorno dell’Epifania. È nata per caso. Quel 6 gennaio del ’95 la voglia di reagire all’aggressione mafiosa è forte. Il Comune ha allestito in piazza Valarioti una distribuzione di pasti caldi per gli immigrati, insieme ad alcune associazioni. L’allegria si diffonde contagiosa, i braccianti bianchi e neri iniziano a danzare, e ballano pure suore e assessori. Di anno in anno, l’Epifania è stata a Rosarno la festa dei popoli, con canti e balli, vino e le tradizionali zeppole preparate dalle casalinghe del paese. Una bella festa. Un segnale di accoglienza che ha riempito i cuori degli immigrati.
Eppure le violenze sistematiche proseguono. E si conta un altro morto: nell’ottobre del ’96 un africano di età compresa tra i 25 e i 30 anni viene ritrovato nelle campagne di Laureana di Borrello, in avanzato stato di decomposizione. Impossibile scoprirne l’identità: nessuno lo cerca, nessuno si fa vivo. Era un fantasma, lo è anche da morto. Un’altra probabile vittima dello sfruttamento mafioso nelle campagne della Piana. I migranti sono sempre di più, la loro condizione peggiora. Rosarno continua a mostrare agli africani il suo doppio volto, quello dell’accoglienza e quello della brutalità. In una spedizione punitiva, tre marocchini vengono feriti a sprangate nel gennaio del ’97.

La lettera dei migranti
In un clima simile, le dimostrazioni di vicinanza delle istituzioni sono importanti per i braccianti stranieri, come raccontano essi stessi per bocca del rappresentante della comunità musulmana Sidy Diakhate, autore di una lettera di ringraziamento inviata l’11 febbraio del ’97 al sindaco. Gli immigrati rendono omaggio per la concessione del campo da tennis durante i festeggiamenti religiosi. «Rosarno è una città di emigranti – diceva Lavorato – e non può non rispondere con l’accoglienza e la solidarietà alla richiesta di aiuto dei tanti stranieri che vengono qui a cercare lavoro». Eppure non tutti la pensano così, anche a sinistra. «Voci contrarie ce n’erano anche dalla nostra parte – racconta Lavorato – perché i braccianti di un tempo, i compagni di mille battaglie per i diritti, rifiutavano il rapporto con gli immigrati. Contraddizioni dentro il popolo, si diceva una volta».
Contraddizioni, ma anche la xenofobia e il razzismo violento dei gruppi criminali. Lo raccontano gli stessi migranti nella lettera del 12 novembre del ’99 diretta al sindaco, ormai alla sua seconda legislatura. Gli africani scrivono per dire basta alla «violenza senza precedenti», vere e proprie «congiure razziste» messe in atto «24 ore su 24 anche durante il riposo notturno» da «ragazzini minorenni che ci sputano in faccia, brigate clandestine in moto scooter, aggressioni di violenza inimmaginabile e di ogni tipo». Culminate nell’ennesima sparatoria: il 9 novembre del ’99 il bilancio è di tre feriti. Non tutti i rosarnesi sono razzisti e mafiosi, ma tutti i mafiosi rosarnesi sono razzisti. E violenti. Il tiro a segno sul nero è quasi un’esercitazione per la manovalanza criminale. La «caccia al marocchino» (tutti i neri sono marocchini per i calabresi) è uno sport. Li aspettano sulla via Nazionale, un lungo serpentone senza marciapiedi, e li prendono a sportellate o a randellate passando in moto. Li aggrediscono nei ricoveri notturni, le prime bidonville calabresi. Perché il clima di terrore creato attorno ai migranti li emargina, costringendoli a fare una vita da fantasmi. Si rinchiudono nelle fabbriche abbandonate, occupano i casolari di campagna ormai inutilizzati, dormono nei cartoni all’addiaccio.

L’appello e la risposta del Comune
Con quella lettera al sindaco, gli africani lanciano un appello alla mobilitazione in loro aiuto. Non resta inascoltato: il 15 novembre ’99 il consiglio comunale adotta un ordine del giorno all’unanimità sul clima di violenza ai danni dei lavoratori africani. Già allora era chiaro il motivo dell’escalation: «La situazione già tanto insostenibile – si legge nel documento – può aggravarsi per la tensione che pervade gli agrumicoltori, che non hanno ancora riscosso i crediti delle annate precedenti». Più si avvicina la crisi, maggiore è la sofferenza di liquidità e sempre più violente sono le violenze razziste. Il consiglio vara poi un pacchetto di iniziative pro-migranti, dalla costituzione di un gruppo di contatto ai corsi di lingue per stranieri e all’avvio di una mensa. Fino a una grande manifestazione sul tema dell’immigrazione. In città arriverà don Luigi Ciotti, l’auditorium si riempirà di migranti e rosarnesi.

Contraddizioni dentro il popolo
È il 13 dicembre del ’99. È già legge la Turco-Napolitano, presto arriverà la Bossi-Fini. A Rosarno e un po’ ovunque nelle campagne italiane i migranti arrivano da ogni dove, soprattutto dall’Africa nera. Intanto tra i rosarnesi si diffonde una pratica già in auge da decenni, quella del falso bracciantato: ci si pagano i contributi per il minimo di giornate richieste per ottenere il sussidio annuale. Diventeranno oltre 1600 i braccianti in paese, su 15mila residenti ufficiali e 11mila effettivi, ma negli agrumeti si vedranno sono volti neri. Contraddizioni dentro il popolo. L’agrumicoltura all’inizio del terzo millennio è ancora redditizia. I circa duemila piccoli proprietari terrieri godono di una cospicua rendita. Ma c’è chi guadagna miliardi con le sistematiche truffe all’Ue: le famigerate arance di carta che generano miliardi su miliardi a finanziare l’economia e l’assistenzialismo mafiosi. Tutti guadagnano, gli africani vivono nelle baracche, nel silenzio generale. E di sindacalisti e ispettori del lavoro non se ne vede mai uno. Potenza della ‘ndrangheta. Solo qualche volontario, la chiesa e pochi altri si occupano di loro.
Nel 2003 finisce l’era del sindaco antimafia. Il centrosinistra perde il potere a Rosarno. Si susseguono liste civiche al governo cittadino, scandali, arresti, dimissioni, scioglimenti per infiltrazioni mafiose. Mentre la questione migranti s’ingigantisce sempre più. Dormono ormai in duemila nella cartiera costruita coi soldi della 488 e poi abbandonata, simbolo dello spreco e dello sfruttamento. Di politiche dell’accoglienza non se ne sente più parlare e dagli africani ci vanno solo Medici senza frontiere e i volontari cattolici e laici. I rosarnesi, popolo di emigranti, si voltano troppo spesso dall’altra parte. Non si è sentito più parlare a Rosarno della Festa della fratellanza, nell’indifferenza colpevole delle istituzioni tutte. Che negli ultimi anni a Rosarno non ci sono state, sciolte per infiltrazioni della mafia. Scrivere a un commissario prefettizio forse non è la stessa cosa che scrivere a un sindaco come Lavorato. Il resto è storia recente, fatta di schiavitù, violenze, deportazioni. E contraddizioni dentro il popolo.