Radical politik
26 Febbraio 2010Per tagliare la testa al toro della polemica sul «caso Bonino», potremmo dire che quanto più farà una campagna elettorale alla radicale, più avrà possibilità di vincere la sfida contro Renata Polverini. Anche usando l’arma gandhiana dello sciopero della fame e della sete. La prova regina del resto è sotto gli occhi di tutti: la sua candidatura, come anche quella di Nichi Vendola, non sono incidenti di percorso ma due possibilità di ridare credibilità alla politica e speranza alla sinistra di battere i concorrenti berlusconiani, nel Lazio e in Puglia. Obiettivi per niente scontati, con i sondaggi che annunciano duelli all’ultimo voto.
Viceversa molti esponenti del Pd richiamano all’ordine la leader radicale perché la smetta con le solite pannellate e cominci a curare gli equilibri interni al suo schieramento. Un invito, espresso anche ruvidamente, a occuparsi di cose concrete, rispettando, per favore, tutte le anime, dalla cattolica alla comunista, dei partiti che la sostengono.
Invece Bonino scarta, spiazza, usa il corpo, agita un modo concreto, fisico, di assumere su di sé il conflitto e la battaglia politica, in nome della legalità e del rispetto delle regole democratiche. Provocando malumori che esprimono estraneità, come se il fatto che nessun partito osservi la legge sulla raccolta delle firme per la presentazione delle liste, fosse una fissazione maniacale dei radicali (che lo denunciano da sempre, ora in forma estrema) e non un principio che tutti dovremmo difendere.
Tra l’altro, non è del tutto secondario rilevare come, dal punto di vista mediatico (l’informazione e la par condicio sono al primo posto nell’agenda del partito di Bonino), si registri già un evidente, positivo, risultato: essere sulle pagine di tutti i giornali.
Sarebbe davvero esiziale (per fortuna Bersani sembra averlo capito) che alla forsennata battaglia della destra contro la donna (abortista e laicista), si sommasse ora quella della sinistra contro la liberista che pensa solo ai diritti civili trascurando quelli materiali del mondo del lavoro.
La visibilità, i successi, la retorica dei radicali italiani sono stati specchio della cattiva coscienza nazionale. Di conseguenza la politica di questo gruppo di irriducibili ha brillato più per insipienza della sinistra, più per l’arretratezza culturale del blocco sociale conservatore italiano (il declino della borghesia nazionale) che per merito dell’ideologia liberal-azionista di Pannella e Bonino. Il divorzio, l’aborto, il rispetto delle regole in altri paesi europei non hanno avuto bisogno di storici referendum per affermarsi, né di clamorose azioni di disubbidienza civile.
Naturalmente la disinvoltura con cui i radicali si sono schierati, prima con Berlusconi poi con Prodi, non alimenta le simpatie di un elettorato di sinistra. E neppure lo scivolone di votare, con il centrodestra, un pessimo regolamento della par-condicio. Più in generale e in profondità, sono palesi le differenze tra il pensiero di una sinistra anticapitalista (una volta più chiaro di quanto non lo sia di questi tempi) e le bussole del partito radicale (il potere salvifico del mercato, la guerra umanitaria).
Per queste ragioni consigliamo di non sottovalutare il rischio di sventolare l’identità radicale guardando alla coalizione come a una zavorra, alle altre culture come a un intralcio. Non c’è bisogno di sollecitare un crescente senso di estraneità, verso gli appuntamenti elettorali, da parte di molti elettori della sinistra dispersa e senza rappresentanza.