Astensioni, le ragioni di un virus

30 Marzo 2010 0 Di luna_rossa

di Marcello Sorgi – La Stampa.it

L’allarme per l’astensione era giustificato, la sorpresa perché si è verificata no. Che non ci fosse in giro una gran voglia di andare a votare, era chiaro da settimane, ed anche negli ultimi giorni, ciascuno di noi aveva potuto constatarlo, tra amici e conoscenti o in famiglia.

Siamo ancora lontani, tuttavia, (con il 63,6% di affluenza) dai livelli della Francia, in cui più della metà degli elettori ha disertato i seggi. E resta sorprendente, semmai, che dopo una campagna elettorale orrenda come quella a cui abbiamo assistito, due italiani su tre, malgrado tutto, si siano recati alle urne.

Anche a non voler sommare la rissa, con otto, dicasi otto, sentenze, emesse da magistrature di vari gradi e diversi tipi, per decidere sull’ammissione delle liste del Pdl a Roma e a Milano, e poi gli scandali giudiziari e le intercettazioni che hanno colpito entrambe le parti, e ancora la cancellazione degli spazi televisivi di informazione e di approfondimento dedicati alle elezioni, era abbastanza evidente per tutti che queste elezioni non avrebbero segnato la fine del mondo. Che importassero a Berlusconi e a Bersani, così come a Fini, Bossi e Di Pietro, d’accordo: «ma a noi ne viene veramente qualcosa?», si saranno chiesti gran parte dei cittadini, stanchi di sentirsi chiamare all’appello da partiti che hanno ormai problemi uguali e deficienze assai simili.

C’era inoltre una non trascurabile differenza tra le regionali di quest’anno e quelle del 2005: allora, con la legislatura 2001-2006 giunta agli sgoccioli, l’elettorato sapeva di poter esprimere un giudizio politico sull’operato del governo di centrodestra al potere da quattro anni. E la bocciatura fu talmente sonora che, pur avendo Berlusconi recuperato in extremis, l’anno dopo, nella campagna per le politiche, non riuscì a fare il miracolo e perse contro Prodi per ventimila voti.

Al contrario, stavolta – e la gente lo aveva capito benissimo -, con le regionali che cadono a meno di metà del percorso, e Berlusconi che ha ancora tre anni di tempo, fino al 2013, per raddrizzare l’andamento caracollante del suo governo, anche un forte successo dell’opposizione, che non c’è stato, non avrebbe potuto cambiare il corso delle cose.

In elezioni tutto sommato locali, a cui inutilmente, e con i peggiori argomenti, come s’è visto, s’è cercato di dare respiro nazionale, un peso, uno spostamento, potevano portarlo i candidati governatori, che andavano individuati con grande attenzione. Ma a questo, invece, i due maggiori partiti si sono applicati confusamente, o sulla base di calcoli politici lontani dai problemi e dai territori ai quali avrebbero dovuto essere collegati, e destinati pertanto a infrangersi contro la realtà.

Valgano, per tutti, due esempi: Mercedes Bresso, in Piemonte, e Rocco Palese, in Puglia.

Che a dispetto di una buona prova dell’amministrazione da lei guidata l’immagine della governatrice del Piemonte si fosse appannata, si sapeva già dall’anno scorso, quando si sentì parlare della possibilità che la Bresso fosse dirottata al Parlamento Europeo e al suo posto si candidasse Chiamparino. Per ragioni legate non solo alla sua storia politica, ma ai suoi più recenti atteggiamenti, anche in polemica con il suo partito, come quando aveva proposto la formazione di un Partito democratico del Nord, il sindaco di Torino sarebbe stato molto più adatto a fronteggiare la candidatura nuova, e per certi versi rivoluzionaria, del leghista Cota. Ma siccome ai vertici del Pd era considerato un rischio dargli un’ulteriore chance di crescita, l’ipotesi Chiamparino venne accantonata come un azzardo. Con il risultato, appunto, di incoraggiare l’astensionismo (i votanti in Piemonte sono scesi dal 71,4 al 64,3 per cento) e di farlo nuocere più nel campo del centrosinistra che non nell’altro.

Allo stesso modo, Berlusconi, con il suo solito fiuto, s’era reso conto subito che quella di Palese era la scelta di un brav’uomo, forse anche un discreto professionista del Consiglio regionale pugliese, ma per niente in grado di fronteggiare la candidatura carismatica di Nichi Vendola, che s’era imposta a dispetto perfino di un leader del Pd come D’Alema.

Il Cavaliere, preso dai suoi molti guai, non era poi riuscito a costruire un’intesa con Casini su un’indicazione concordata, e non aveva potuto accettare di far correre tutto il centrodestra dietro le insegne della Poli Bortone, scesa in campo con l’Udc, e i cui voti, sommati a quelli del Pdl (e sottratto l’astensionismo che ha visto i votanti calare dal 70,5 al 63,2 per cento), avrebbero potuto far cambiare di segno la Puglia.

Caso per caso, ragionamenti del genere, potrebbero essere applicati ad almeno sette delle tredici regioni in cui s’è votato: guarda caso, quelle decisive. S’è preferito invece credere che gli elettori, alla fine, avrebbero mandato giù qualsiasi minestra pur di non doversi buttare dalla finestra. Senza mettere in conto che tra i giochi possibili di un elettorato ormai piuttosto avvertito, e in genere (tolte le ultime settimane) piuttosto informato e sofisticato quanto a orientamenti politici, c’era anche la carta del non voto.