Grecia in svendita

15 Marzo 2010 0 Di luna_rossa

Sul terminal G2 le Toyota, Suzuki e Isuzu sono allineate a centinaia, appena scaricate dal cargo Virgo leader. Con i certificati «export» appesi agli specchietti retrovisori e le pellicole protettive sulle carrozzerie nuove di zecca. I simboli della crisi, nella Grecia che non ha mai avuto una sua industria automobilistica, giacciono, meno evidenti, poco oltre il tappeto di macchine e hanno l’aspetto discreto di container grigi con una sigla blu, in ideogrammi e caratteri latini, «Cosco».
Il 30 settembre scorso la società cinese ha stretto un accordo con l’Autorità
portuale del Pireo (Olp), assicurandosi per 35 anni la gestione dei terminal
Pier2 e Pier3 del porto di Atene, che con 1.600 impiegati (tra cui 400 portuali) è uno dei più importanti del Mediterraneo. E ora i lavoratori temono che «i cinesi» possano mangiarsi, pezzo dopo pezzo, l’intero scalo commerciale. «Stanno vendendo tutto alla Cina», s’infervora Yannis Kydis, dipendente della Olp, società a partecipazione statale quotata in borsa. Kydis non vuole fare la fine dei suoi colleghi di Astakos – sul mare Ionio – dove «la Cosco ha già dettato le
sue regole, assumendo con contratti che non prevedono straordinari pagati». Dopo una lotta durata mesi, Kydis e compagni hanno fatto naufragare il progetto di Cosco di far sbarcare sulle banchine elleniche 2.500 operai «importati» da Pechino. Ma dal 30 giugno prossimo l’amministrazione di Pier2 e Pier3 passerà interamente ai cinesi.
Secondo il governo, l’accordo raggiunto con Pechino sul Pireo farà guadagnare
ad Atene 4.3 miliardi di dollari (in 35 anni), darà vita a un migliaio di nuovi posti di lavoro e permetterà la creazione di terminal per container «moderni, flessibili ed efficenti». Per Kydis invece «i cinesi non sono interessati ad aumentare il traffico navale, ma mirano a importare componenti da assemblare qui per produrre merci con marchio Ue, per questo stanno già acquistando una serie di
fabbriche dismesse qui vicino».
Pericle era convinto che fin quando Atene avesse mantenuto la supremazia sui mari, sarebbe sopravvissuta a ogni attacco nemico. Gli spartani potevano anche invadere l’Attica, distruggere le sue viti e i suoi ulivi: l’approvvigionamento della capitale sarebbe continuato grazie al Pireo e via
mare l’avversario sarebbe stato infine sconfitto.
A 2500 anni dalla morte del leader della polis classica, questo simbolo della Grecia sembra destinato a finire in mani straniere. Il perché lo spiega Jorgos Nukutidis, presidente dei portuali della confederazione sindacale Gsee. «La Olp faceva utili, aveva accumulato in cassa 50 milioni di euro. Sotto il precedente governo di Nea Democratia aveva ottenuto un prestito di 90 milioni: tutti questi soldi poi sono spariti, con una serie di ammodernamenti fittizi dei moli: a quel
punto i primi due terminal sono stati venduti ai cinesi”.
Una situazione simile a quella dei lavoratori della Olympic, che per dieci giorni hanno protestato occupando – 24 ore su 24 – il tratto di via Panepistimiou tra la sede centrale della compagnia aerea e la Biblioteca nazionale. La privatizzazione della compagnia di bandiera ha già causato centinaia di licenziamenti. Ora si teme che la sua fusione con Aegean – annunciata il mese scorso – possa produrre altri problemi occupazionali. «Dall’inizio degli anni ’90 socialisti e conservatori non hanno fatto nulla per modernizzare l’azienda – denuncia Zavalos Zikos, dell’Unione del personale dell’Olympic -. Al contrario, secondo la ricetta neo-liberista, hanno contribuito a distruggerla, per poi privatizzarla». Zikos ritiene che la Grecia in questo momento sia «un laboratorio
dove sperimentare ricette per distruggere il lavoro».
Terzo premier di una dinastia politica iniziata col nonno Gheorghios (tre volte a capo dell’esecutivo) e proseguita dal padre Andreas (due mandati da primo ministro), in campagna elettorale Jorgos Papandreou aveva promesso salari al passo con l’inflazione e 3 miliardi di euro d’incentivi per rilanciare l’economia. Dopo la scoperta di un deficit al 12.7% del prodotto interno lordo, nascosto dalla precedente amministrazione conservatrice, si è rivelato al paese nelle vesti di novello Dracone e negli ultimi tre mesi ha varato altrettanti pacchetti
di misure economiche «lacrime e sangue» che prevedono, tra l’altro, tagli agli stipendi pubblici, blocco delle pensioni, aumento dell’iva.
Papandreou ha assicurato alla popolazione che «suoi sacrifici non saranno invano» e che, fra tre anni, il Paese sarà più sano e più giusto. Il premier, con una serie di dichiarazioni rilasciate al quotidiano Ta Nea, ha di nuovo invitato tutti i cittadini, due giorni dopo lo sciopero generale che ha paralizzato la Grecia e il grande corteo sindacale di Atene, a unirsi intorno al governo per ricostruire la Grecia.
«Il nostro primo compito è salvare l’economia, primo passo necessario nel cammino verso il futuro» ha detto. Papandreou ha affermato che di fronte ai sacrifici dei greci egli si impegna a «non tollerare lo scandaloso favoritismo
presentato come giustizia, i privilegi dei pochi come diritti acquisiti, la ricchezza provocatoria come cultura, il profitto parassitario come imprenditoria e l’evasione fiscale come frutto del buon senso».
Ma il Barometro di Public Issue per ilmese di marzo – diffuso dalla tv Skai – rileva che, pur mantenendosi alta (66%), la popolarità di Papandreou ha perso 6 punti rispetto al precedente Barometro.
E mentre le proteste per i tagli non si placano, il governo e l’opposizione dei partiti di sinistra Kke e Syriza (quella conservatrice è fuori gioco, perché l’opinione pubblica la considera la principale responsabile del disastro dei conti pubblici) si preparano già al prossimo scontro, una battaglia sulla prevista ondata di privatizzazioni – di cui il Pireo e la Olympic non rappresentano che la punta dell’iceberg – che si annuncia senza esclusione di colpi.

Michelangelo Cocco – Il Manifesto.it