L’isola dei cassintegrati
2 Marzo 2010Sull’ «Isola dei cassintegrati» si arriva per mare da Porto Torres su una bagnarola mezzo arrugginita che per fare sedici miglia impiega un’ora e un quarto. Quando sbarchi a Cala Reale una delle prime cose che noti è, a ovest sulla collina che cinge la baia, un grande edificio con la facciata a forma di croce, su cui spicca una scritta in lettere di bronzo: «Pax». Non è una chiesa, però. E’ un ossario. Se ci entri vedi, sulle pareti di un’unica sala rettangolare, attraverso i cristalli che chiudono quattro enormi urne, scheletri a migliaia. Teschi, tibie, femori, esposti nelle teche, ammucchiati l’uno sull’altro a comporre una massa candida e compatta. Sono i resti di 4.500 giovani uomini, soldati e ufficiali dell’esercito austro-ungarico, morti qui di colera e di tifo durante la prima guerra mondiale. Furono catturati dai serbi, insieme con altri 35.500 commilitoni, nel dicembre del 1914, quando l’armata asburgica attaccò il piccolo stato balcanico. Furono tutti portati, a tappe forzate, a Valona, in Albania, per essere consegnati alle potenze dell’Intesa. In 15.000 morirono durante la marcia, decimati dal freddo, dalla fame, dalle malattie. I superstiti furono imbarcati su bastimenti italiani e trasferiti all’Asinara, allora stazione di quarantena. Mille e cinquecento morirono durante il viaggio. Dei 23.500 arrivati in Sardegna, 4.500 furono stroncati dal colera e dal tifo. Le loro ossa furono gettate in una fossa comune e solo nel 1936, quando fu costruito l’ossario di Cala Reale, trovarono una sistemazione un po’ più dignitosa.
Isola del Diavolo: così i prigionieri austriaci ribattezzarono l’Asinara. E in effetti, su questo pezzo di terra bellissimo – paradiso più che inferno a vederlo in una giornata di sole quasi caldo – più d’una volta la Storia è passata a massacrare le vite di uomini senza difesa, inermi contro poteri sovrastanti. Accadde ad esempio quando la gente che su questo lungo scoglio abitava da sempre, pescatori liguri migrati da Camogli e pastori sardi, fu deportata a Stintino perché Umberto I, nel 1885, aveva deciso di fare dell’Asinara per metà una colonia penale e per l’altra metà una «stazione sanitaria marittima di quarantena». Accadde ancora nei primi anni Settanta, quando la vecchia colonia penale fu trasformata in un carcere di massima sicurezza, uno dei più atroci e disumani che mai si siano visti.
Ed è in una di quelle che sono chiamate «diramazioni» della prigione maledetta, chiusa nel 1999 per fare dell’Asinara un parco nazionale, che gli operai della Vinyls si sono asserragliati. Dormono di notte nelle celle dell’ex penitenziario di Cala d’Oliva, l’antico borgo dei pescatori camoglini. Preparano i pasti nelle cucine dell’Ostello della gioventù. Sono in quindici. Altri venti presidiano la torre medievale costruita dagli Aragonesi a guardia dei moli di Porto Torres; ci si sono arrampicati dopo essere scesi dai tetti dello stabilimento che fino a sette mesi fa produceva pvc (cloruro di polivinile) e che ora è fermo, in amministrazione controllata dopo il fallimento dichiarato dalla proprietà, ovvero dall’imprenditore veneto Fiorenzo Sartor. Tutti i dipendenti, 120, sono in cassa integrazione.
I sei chilometri che separano Cala Reale da cala d’Oliva li percorriamo su una vecchia jeep con i freni quasi andati, su un sentiero stretto e sfasciato. Al volante Tino Tellini, uno dei leader degli irriducibili che non ci stanno a veder chiudere la fabbrica. Quando il diesel del fuoristrada si spegne e smontiamo ci troviamo di fronte le mura dell’ex galera, ridipinte di bianco e di azzurro. Le celle si aprono su un cortile centrale. È qui che troviamo i compagni di Tino, in piedi intorno a un tavolo su cui è stato allestito uno spuntino di mezza mattina con formaggio, vino rosso e caffè. Ospiti i tre carabinieri della stazione dell’Asinara, due poliziotti e tre agenti di Corpo forestale, gli unici che vivono sull’isola davvero; carabinieri e poliziotti arrivano al mattino e vanno via la sera. D’altra parte, d’inverno qui è il deserto. Gli impiegati dell’Ente parco stanno a Porto Torres. Oltre ai poliziotti, ai carabinieri e ai forestali, in questo periodo dell’anno l’unica presenza umana sono i pastori della Barbagia che catturano le capre in sovra numero (danneggiano l’equilibrio dell’ecosistema). «Con loro – dice Pietro Marongiu, insieme a Tino capitano dei naufraghi della crisi – abbiamo stabilito un buon rapporto. Ci offrono pecorino e agnello arrostito. Anche con i forestali gira bene. Ci hanno accolto preparandoci uno squisito piatto di murena. E ci hanno aiutato a curare una gazza che abbiamo trovato tra i cespugli di euforbia, ferita da un falco. Stava morendo, ora sta bene».
Non è una festa questa sull’ «Isola dei cassintegrati». La determinazione a non mollare è forte, ma si vede, si sente che Tino, Pietro e gli altri (Andrea, Gianmario, Gavino, Gianni, Paolo, Michele…), i cinquantenni come i ragazzi appena sopra i vent’anni, si stanno giocando un’ultima chance, quasi da soli. Qualche mese fa i sindacati confederali hanno siglato, con le firme dei loro dirigenti nazionali, un accordo con l’Eni che ha dato alla holding della chimica e dell’energia ciò che chiedeva: mano libera rispetto a strategie aziendali di dimensioni planetarie dalle quali la produzione di pvc in Sardegna è stata cancellata. Il segretario dei chimici Cgil di Porto Torres s’è dimesso per protesta, ma è stato l’unico e non è servito a niente. «Ora è spuntata un’ ipotesi d’accordo con Ramco – spiegano Pietro e Tino – È un gruppo del Qatar che vorrebbe comprare l’intero ciclo del cloro in Italia, non solo Porto Torres, anche Marghera. Come condizione chiede all’Eni di poter avere materie prime – etilene e fenolo prodotti da Polimeri Europa, una società Eni – a prezzi concorrenziali. Sarebbe la salvezza. Ma l’Eni tergiversa e c’è il rischio che salti tutto. Abbiamo chiesto che intervenga il governo, che dell’Eni è azionista di maggioranza, e non s’è mosso niente. Tra pochi giorni è convocato un incontro al ministero dello sviluppo economico. Noi siamo qui, a dormire nelle brande delle celle, per dire che un’ azienda come la Vinyls, che potrebbe ancora produrre ricchezza, non può essere chiusa solo perché l’Eni, fuori da ogni controllo dei poteri politici democratici, ha fatto accordi internazionali che prevedono una smobilitazione del ciclo del cloro in Italia».
I naufraghi dell’Asinara hanno di fronte l’enorme forza dell’Eni, ai cui manager delle loro vite importa poco o niente. Sono in centoventi, senza alcun potere vero che li sostenga. Da soli provano a giocare la carta della ribalta mediatica perché conti soltanto se finisci sui giornali o in tv. Perciò sono qui, sull’Isola del Diavolo, dove dappertutto vedi tracce di sopraffazioni passate, storie di violenze inaudite compiute dai forti sui deboli. Eredi di una cultura che all’ingiustizia ha risposto con la lotta sindacale e politica organizzata, gli operai della Vinyls ci provano ancora. Che ce la facciano importa a chiunque creda che al mondo così com’è non ci si può rassegnare.
Costantino Cossu – L’Unità – 02.03.2010