Marzo 1959-2010: cinquantunesimo anniversario dell’esilio tibetano in India

10 Marzo 2010 2 Di m.corallo

Marzo è un mese particolare per i tibetani: il 10 è l’anniversario della rivolta di Lhasa contro l’occupazione cinese del 1959 che costò la vita a 87.000 persone e che obbligò il Dalai Lama a fuggire in India. Il 28 marzo 1959, giorno in cui le autorità cinesi dichiararono illegale il governo tibetano in esilio, per volontà del governo della Repubblica popolare dal 2009 è diventata la festa della “liberazione dalla schiavitù”, intendendo in questo modo l’occupazione armata del Tibet da parte di Pechino un’azione condivisa dalla popolazione locale e definendo inoltre la figura del Dalai Lama e le legittime istituzioni tibetane schiaviste.
Ho viaggiato da settembre 2008 a giugno 2009 in India e Nepal realizzando una ricerca e un reportage fotografico sull’esilio tibetano a 50 anni dal suo inizio.
Il 28 marzo ero ad Hong Kong per realizzare un’intervista ad un membro del Fulun Gong scappato dalla Cina continentale, così ho avuto modo di seguire su vari canali televisivi la diretta delle cerimonie della festa della “liberazione dalla schiavitù”. In una Lhasa tirata a lucido c’erano migliaia di tibetani in abito tradizione inginocchiati davanti ad un palco situato nella piazza principale della città sul quale vari membri del governo di Pechino elencavano le nefandezze commesse dal governo del Dalai Lama, sottolineando invece i miglioramenti apportati dall’attuale amministrazione occupante in Tibet. Per rendere il tutto più credibile, le autorità cinesi alternavano le riprese degli elegantissimi rappresentanti del governo di Pechino presenti sul palco ad interviste fatte ai tibetani presenti alla cerimonia in cui le persone ripetevano meccanicamente i loro ringraziamenti alle autorità cinesi per averli liberati dalla schiavitù del Dalai Lama.
Da quanto è emerso da una lunga serie di interviste da me realizzate nelle principali comunità tibetane situate nel nord dell’India e in Nepal e esaminando quanto emerge dall’attuale ricerca storiografica, in realtà le cose stanno diversamente.
Se inizialmente l’occupazione del Tibet aveva semplicemente delle finalità geo-strategiche di natura militare, con l’ascesa della Cina ad officina del mondo (oggi la Cina controlla il 53% della produzione di manufatti a livello mondiale) le cose sono cambiate.
La Cina attualmente ha un assetto produttivo e dei ritmi di crescita economica che la rendono dipendente dall’approvvigionamento di materie prime sul mercato mondiale, cosa che comporta ad esempio il fatto che il governo di Pechino sia sempre più presente in numerosi stati africani con finalità dichiaratamente imperialiste.
La scoperta di uno dei più grandi giacimenti di metano al mondo custodito sotto i ghiacci dell’altopiano tibetano ha cambiato sensibilmente la strategia politica seguita dalle autorità cinesi in Tibet a partire dal 1959.
Il governo di Pechino ha messo in campo un piano di trasferimento della popolazione (in particolare di membri della principale etnia presente in Cina, cioè gli han) stimolato da lauti incentivi economici e facilitato dall’inaugurazione, nel luglio del 2006, della linea ferroviaria che collega Pechino con Lhasa. Di conseguenza oggi gli han sono l’etnia maggioritaria in Tibet.
L’unico punto su cui la strategia governativa è rimasta immutata è la repressione della cultura tibetana, cosa che spinge migliaia di tibetani ad attraversare l’Himalaya a piedi per fuggire a questa situazione.
L’attraversamento dura all’incirca un mese ed avviene molto spesso senza un abbigliamento e viveri adeguati.
In seguito agli accordi stipulati tra il governo cinese e quello nepalese dopo l’ascesa al potere in Nepal del partito maoista (aprile 2006), i tibetani molto spesso devono fuggire sia dalle truppe dell’esercito cinese che da quelle nepalesi, entrambe prive di remore nel sparare addosso alle colonne di tibetani diretti al confine. Molti tibetani ovviamente muoiono di stenti e di freddo durante l’attraversamento dell’Himalaya, ma anche a causa dei proiettili sparati sia dall’esercito cinese che da quello nepalese.
Una volta attraversato il confine nepalese i tibetani trovano a Katmandu’ un centro d’accoglienza gestito dall’Onu, dove hanno la possibilità di ottenere lo status di rifugiati e di salire su un autobus diretto a Daramsala, città situata nel nord dell’India e attuale residenza del governo tibetano in esilio.
A Katmandu sono andata a fare una visita a questo centro d’accoglienza meta dei tibetani che varcano l’Himalaya alla ricerca della libertà.
Un rifugiato fornito di un ottimo inglese mi ha raccontato che sono sempre di più i tibetani che muoiono durante l’attraversamento del confine per mano dell’esercito nepalese. Ha aggiunto anche che la presa di posizione politica del Dalai Lama in merito all’autonomia e non all’indipendenza del Tibet dal governo di Pechino non è condivisa dalla maggior parte della popolazione, cosa che però non mette in discussione l’autorità del capo spirituale e politico dei tibetani.
Ho pranzato con un tibetano che lavora per Human Rights Watch. Il suo compito è raccogliere le storie dei tibetani appena arrivati in Nepal e compilare dei rapporti per la ONG per cui lavora. Da quanto mi ha raccontato, la libertà religiosa concessa in Tibet di cui il governo di Pechino si vanta è una farsa.
Quando arrivano a Daramsala i tibetani finiscono in un centro per i rifugiati gestito dal governo in esilio e situato nel centro della città. E’ da qui che nasce per loro una nuova vita, in un paese che parla una lingua per loro incomprensibile e che offre poche opportunità di lavoro e quindi d’inserimento sociale.
Una delle conseguenze delle spaesamento connesso a questo esilio forzato in un altro paese è la crescita tra i tibetani del consumo di alcol e droga. Per questa ragione il governo tibetano ha aperto un centro per il recupero dei tossicodipendenti. Durante un’intervista il direttore di questo centro di recupero ha sottolineato che l’aumento del consumo di alcol e droghe tra i tibetani è dovuto alla disoccupazione, alle difficoltà d’inserimento in un paese che parla una lingua diversa e di difficile apprendimento come l’hindi, ma anche molto spesso all’ignoranza sugli effetti delle sostanze con cui i giovani si accostano a questo tipo di consumi.
A rendere maggiormente difficoltoso l’inserimento dei tibetani in India contribuisce anche lo status giuridico di rifugiati, cosa che rende assai difficile per un tibetano lasciare l’India ma anche costruirsi una vita nel paese stesso al di fuori delle comunità tibetane.
Anche le forti tensioni presenti tra la comunità indiana e quella tibetana, in contrasto con l’armonia che regna sul piano diplomatico tra il governo di Delhi e quello in esilio, rendono complicato l’inserimento dei rifugiati nel nuovo contesto.
Da un’intervista fatta ad un medico tibetano residente a Daramsala da oltre trenta anni sono emersi vari episodi di violenza tra le due comunità, come ad esempio l’inaugurazione avvenuta a metà degli anni ’80 del Centro di medicina e astrologia tibetano di Daramsala. L’edificio venne circondato da un gruppo di indiani e danneggiato. I tibetani non poterono chiamare la polizia perchè per tre giorni le linee telefoniche vennero interrotte.
Daramsala è anche sede di numerosi e molto attivi movimenti politici, dove i rifugiati appena arrivati in India possono trovare invece spazi in cui è per loro possibile partecipare alla vita della comunità. Il Gu-Chu-Sun (associazione composta da ex prigionieri politici), il Tibetan Women’s Association e il Tibetan Youth Congress sono tutte organizzazioni fortemente orientate all’indipendenza del Tibet e non all’autonomia, ancora una volta in contrasto con quanto sostiene il Dalai Lama. Le attività principali di questi movimenti politici sono l’organizzazione di manifestazioni di protesta e la produzione di materiale informativo sulla questione tibetana.
La biografia di Gompo, un ragazzo di 25 anni arrivato a Daramsala cinque anni fa dal Tibet, sintetizza molto bene la realtà materiale in cui i rifugiati sono costretti dalle circostanze a muoversi, ma anche l’approccio culturale con cui queste persone si rapportano alla loro terra d’origine e al nuovo contesto in cui sono obbligati ad inserirsi.
Appena è arrivato a Daramsala Gompo ha iniziato a studiare l’inglese, mentre non si è mai premurato di apprendere l’hindi. Per cinque anni è stato mantenuto da un fratello che è riuscito ad emigrare in Europa, ma da qualche mese ha trovato lavoro in un bar a Daramsala raggiungendo così l’autonomia economica. Partecipa attivamente alla maggior parte delle iniziative politiche che si svolgono di frequente in città. Prova molto dolore per il fatto che non potrà tornare in Tibet probabilmente fino al resto dei suoi giorni, visto che la cosa comporterebbe l’arresto e otto anni di reclusione da scontare nelle carceri cinesi. Ci tiene molto a sottolineare però che il nemico dei tibetani è il governo di Pechino e non la popolazione, visto che anche i cinesi sono schiacciati dalla dittatura e che comunque sono brave persone. Questo concetto tante volte ripetuto da Gompo durante l’intervista penso che sia la sintesi di uno dei capisaldi della cultura tibetana da cui la cultura occidentale ha qualcosa da imparare: il pacifismo agito e non solo teorizzato.