Una “Guernica economica” per la Grecia
9 Marzo 2010Una via di Guernica dopo il bombardamento fascista del 26 aprile 1937
di Joseph Halevi
Nei confronti della Grecia si sta scatenando una vera e propria Guernica economica, un massacro di fronte al quale la sinistra europea mostra un’imperdonabile passività. Ciò che viene imposto ad Atene è un esempio, per incutere terrore alla Spagna, al Portogallo e anche all’Italia. Ma perfino la Francia, di fronte alle direttive tedesche, è crollata in una nuova Sedan, anch’essa economica.
L’estate scorsa Angela Merkel aveva lasciato correre il deficit di Berlino, temperando il fanatismo protestante dell’allora ministro socialdemocratico alla finanze. Ora con Schäuble in quel dicastero siamo di nuovo in piena maledizione biblica.
Secondo i sondaggi l’opinione pubblica europea tende ad accettare la giustificazione che a spese in deficit si rimedia con drastici tagli. Ciò equivale a equiparare lo Stato a una famiglia che spende più di quanto guadagna è che poi è costretta a ridurre il proprio livello di vita. Lo Stato si troverebbe forse in questa situazione se ci fosse la piena occupazione come tendenza naturale. Esclusa tale chimera, il deficit è sempre finanziabile, purché l’autorità che lo emette abbia il controllo tanto della politica monetaria che di quella fiscale, cosa che nell’ambito dell’Euro è impossibile.
Ma all’interno dell’euro vengono definiti i rapporti capitalistici intraeuropei per cui c’è chi può e chi non può. Oltre che dal fanatismo ideologico, il rapido rientro di Berlino nell’ortodossia finanziaria scaturisce da una visione molto semplice. Noi, dicono quelli di Berlino, non diamo un euro all’Europa (nella fattispecie alla Grecia e alla penisola iberica) perché intanto il nostro capitalismo uscirà dalla crisi grazie alle esportazioni nette. Il congelamento dei salari indotto dalla disoccupazione ci fa comodo mentre i nostri meccanismi interni di sussidi, sia a livello federale che statale, aiutano le ristrutturazioni. Queste e la deflazione salariale aumenteranno la competitività intercapitalistica della Germania.
Nei confronti della Grecia e degli iberici lo sola preoccupazione consiste nel proteggere i valori finanziari delle banche tedesche e francesi che detengono titoli pubblici di quei paesi. I vaghi accenni a eventuali prestiti alla Grecia sono infatti diretti solo in tal senso. I tagli imposti ad Atene devono tranquillizzare i mercati, come infatti è grosso modo successo, malgrado lo sconquasso che ciò sta producendo nell’economia del paese. Si è creata pertanto un’intesa strettissima tra Parigi, Berlino, Francoforte (sede della Bundesbank e della connessa Bce) e le società di rating, che valutano la solvibilità di chi emette i titoli, che fino a pochi mesi fa sia la Francia che la Germania additavano tra i principali colpevoli della crisi finanziaria.
I «mercati» organizzano lo strozzinaggio della Grecia col pieno appoggio di chi prima li criticava. Il 2008 non è mai successo direbbe il compianto Jean Baudrillard. Il populismo antifinanziario della Merkel, della Lagarde e di Sarkozy (e di Tremonti) ha mostrato di che stoffa è fatto. Nato estemporaneamente, esso si confonde con la miopia del capitalismo tanto tedesco quanto francese. Affondando la Grecia e obbligando Spagna e Portogallo a seguire a ruota, Berlino, Francoforte e Parigi colpiscono un gruppo di paesi che allo scoppio della crisi, fino al 2008, rappresentava oltre il 9% dell’export italiano, oltre il 10% di quello francese, nonché il 6% % di quello tedesco.
E con la crisi oggi di nuovi sbocchi all’orizzonte non se ne vedono, perché la Cina in crescita è esportatrice netta verso l’Europa. Nel frattempo la Grecia continua a essere un’area di riciclaggio dell’industria militare tedesca: l’acquisto di 150 carri armati Leopard stipulato lo scorso ottobre non è stato sospeso, nemmeno mentre vengono tagliate pensioni e stipendi.
L’estate scorsa Angela Merkel aveva lasciato correre il deficit di Berlino, temperando il fanatismo protestante dell’allora ministro socialdemocratico alla finanze. Ora con Schäuble in quel dicastero siamo di nuovo in piena maledizione biblica.
Secondo i sondaggi l’opinione pubblica europea tende ad accettare la giustificazione che a spese in deficit si rimedia con drastici tagli. Ciò equivale a equiparare lo Stato a una famiglia che spende più di quanto guadagna è che poi è costretta a ridurre il proprio livello di vita. Lo Stato si troverebbe forse in questa situazione se ci fosse la piena occupazione come tendenza naturale. Esclusa tale chimera, il deficit è sempre finanziabile, purché l’autorità che lo emette abbia il controllo tanto della politica monetaria che di quella fiscale, cosa che nell’ambito dell’Euro è impossibile.
Ma all’interno dell’euro vengono definiti i rapporti capitalistici intraeuropei per cui c’è chi può e chi non può. Oltre che dal fanatismo ideologico, il rapido rientro di Berlino nell’ortodossia finanziaria scaturisce da una visione molto semplice. Noi, dicono quelli di Berlino, non diamo un euro all’Europa (nella fattispecie alla Grecia e alla penisola iberica) perché intanto il nostro capitalismo uscirà dalla crisi grazie alle esportazioni nette. Il congelamento dei salari indotto dalla disoccupazione ci fa comodo mentre i nostri meccanismi interni di sussidi, sia a livello federale che statale, aiutano le ristrutturazioni. Queste e la deflazione salariale aumenteranno la competitività intercapitalistica della Germania.
Nei confronti della Grecia e degli iberici lo sola preoccupazione consiste nel proteggere i valori finanziari delle banche tedesche e francesi che detengono titoli pubblici di quei paesi. I vaghi accenni a eventuali prestiti alla Grecia sono infatti diretti solo in tal senso. I tagli imposti ad Atene devono tranquillizzare i mercati, come infatti è grosso modo successo, malgrado lo sconquasso che ciò sta producendo nell’economia del paese. Si è creata pertanto un’intesa strettissima tra Parigi, Berlino, Francoforte (sede della Bundesbank e della connessa Bce) e le società di rating, che valutano la solvibilità di chi emette i titoli, che fino a pochi mesi fa sia la Francia che la Germania additavano tra i principali colpevoli della crisi finanziaria.
I «mercati» organizzano lo strozzinaggio della Grecia col pieno appoggio di chi prima li criticava. Il 2008 non è mai successo direbbe il compianto Jean Baudrillard. Il populismo antifinanziario della Merkel, della Lagarde e di Sarkozy (e di Tremonti) ha mostrato di che stoffa è fatto. Nato estemporaneamente, esso si confonde con la miopia del capitalismo tanto tedesco quanto francese. Affondando la Grecia e obbligando Spagna e Portogallo a seguire a ruota, Berlino, Francoforte e Parigi colpiscono un gruppo di paesi che allo scoppio della crisi, fino al 2008, rappresentava oltre il 9% dell’export italiano, oltre il 10% di quello francese, nonché il 6% % di quello tedesco.
E con la crisi oggi di nuovi sbocchi all’orizzonte non se ne vedono, perché la Cina in crescita è esportatrice netta verso l’Europa. Nel frattempo la Grecia continua a essere un’area di riciclaggio dell’industria militare tedesca: l’acquisto di 150 carri armati Leopard stipulato lo scorso ottobre non è stato sospeso, nemmeno mentre vengono tagliate pensioni e stipendi.
Il Manifesto.it