Bangladesh ground zero

2 Aprile 2010 0 Di luna_rossa

di Marinella Correggia
La popolazione del Bangladesh è sempre stata molto «resiliente» rispetto a disastri come i cicloni e le alluvioni: capace di affrontarli e reagire. Non per nulla dopo la distruzione di New Orleans da parte dell’uragano Katrina, un gruppo di statunitensi colpiti dall’evento si recò nel paese asiatico proprio per imparare le modalità e le «tattiche» anche psicologiche di quella resilienza. La quale però ha i suoi limiti, e i cambiamenti climatici li oltrepassano.
Il Bangladesh ha quasi 170 milioni di abitanti, ma è responsabile di una quota irrilevante di emissioni di gas serra visto che la media delle emissioni annue pro capite nel paese è intorno a 200 kg (l’Italia è a 9 tonnellate). Però è fra i paesi che più stanno già soffrendo e soffriranno a causa del cambiamento climatico. In un succedersi di alluvioni, siccità, cicloni, lo scenario è «sott’acqua». E sarà peggio. Il 60% dei bangladeshi vivono a meno di cinque metri sul livello del mare, perciò l’aumento di un metro del livello produrrà trenta milioni di rifugiati, ambientali e climatici. Ma l’incubo è iniziato da un pezzo. La salinità del suolo dovuta alle inondazioni danneggia la produzione alimentare e la disponibilità di acqua potabile. Le aree costiere sono le più vulnerabili. La ricca biodiverstà di Sundarban è attaccata dalla penetrazione dell’acqua marina che erode la foresta di mangrovie come hanno fatto gli allevamenti di gamberetti; la perdita di queste ultime a sua volta esporrà ancor più le coste alle devastazioni dei cicloni.
Ecco perché il clima è tutti i giorni in prima pagina laggiù, riferisce un reportage on-line di due attivisti climatici Usa che girano il mondo senza aerei (www.yearofnoflying.com). Tutti i partiti sono rappresentanti nel «comitato di difesa» chiamato infatti All Party Parliamentary Committee on Climate Change.
Vista la sua grande vulnerabilità, i bangladeshi saranno anche destinatari di rilevanti somme di denaro per le opere di adattamento. Essi però insistono sul fatto che ottenere dal mondo gli aiuti (in realtà un parzialissimo risarcimento danni) per l’adattamento non è così importante quanto ottenere dai paesi responsabili del caos climatico impegni veri a ridurre le emissioni e dunque il peggioramento prossimo venturo. Anche perché il denaro non si mangia. Esempio: dopo il ciclone Sidr, il Bangladesh non riuscì a comprare riso di emergenza in quantità sufficienti dalla vicina India, non per difficoltà finanziarie ma perché il riso serviva all’India stessa.
Al tempo stesso i Bangladeshi si danno da fare per «adattarsi» a un mondo fatto di alluvioni, cicloni e raccolti perduti. Le soluzioni più diffuse sono costruzioni resilienti, rifugi anticiclone, colture più adatte alle bizzarrie del clima mutato, riforestazione delle mangrovie costiere, creazione di barriere antinondazioni – le quali, però, provocano altri danni: intrappolano l’acqua che entra e così aumenta la salinità di molte aree rendendole incoltivabili. E il clima sta cambiando a tal punto le condizioni ambientali e culturali che nei secoli avevano contribuito all’elaborazione di saperi indigeni resilienti nel campo dell’habitat come dell’agricoltura o della salute, che quei saperi non sono più tanto applicabili, anche se si cerca di catalogarli e mantenerli.
Come ha riferito ai reporter statunitensi un contadino: «Sappiamo sopravvivere da sempre ai disastri naturali. Ma non possiamo far fronte anche alle emissioni in aumento, questo è troppo. Solo voi potete fermarle».