Orsù compagni della capitale
3 Aprile 2010Non è una consolazione, semmai un conforto. Rilevare che nella sconfitta di Emma Bonino nel Lazio il voto romano si stagli nella sua nitidezza algebrica, è la conferma di ciò che tutti sanno, Alemanno compreso: in città c’è una sensibile prevalenza democratica, ostile se non antagonista alla destra che la governa. Un dato politico che restituisce al centrosinistra, ancora una volta, la responsabilità dei suoi errori. Ora che Rutelli gira al largo, Veltroni è in castigo e Bertinotti studia, chi è rimasto a Roma a battersi e dannarsi ha una ragione in più per prendersela con chi ha consegnato il Campidoglio a un sindaco con la croce celtica al collo.
Quel che agevolmente ha ottenuto la candidata radicale, staccare di nove punti Renata Polverini in città, e che, in minor misura, riuscì anche a Nicola Zingaretti, dà la misura di quanto scellerata sia stata la scelta politica del centrosinistra alle elezioni comunali di due anni fa. Due anni che sembrano trascorsi invano, se siamo qui a commentare un’altra sconfitta. Dove tuttavia si segnalano non tanto i limiti di una candidatura improvvisata ma accolta in assenza di alternative, quanto la rovinosa disgregazione dell’assetto territoriale dei partiti. Un assetto sempre più rarefatto via via che ci si allontana dalla città, e che non riesce più a dialogare con un elettorato culturalmente e geograficamente periferico. La Regione Lazio è andata perduta proprio qui, in questa vistosa divaricazione. Tra una città che ancora si segnala per tenuta sociale e cultura civile e una provincia che la politica non sa più presidiare, sempre più disancorata e lasciata ai margini, incollerita e rancorosa, oppure indifesa e dunque incline a semplificare. Una contraddizione antica che oggi prepotentemente si ripropone nella sua avvilente modernità, come notava Michele Serra ieri su Repubblica. A Roma, ma anche a Torino e perfino a Napoli: la metropoli tradita dai territori.
Non è l’unica ragione della sconfitta, ma certo la quantità di voti di destra a Frosinone o a Viterbo o nei Castelli romani è impressionante, assolutamente inedita. E stride con l’alto numero di preferenze di alcuni candidati del perdente Pd: a testimoniare quanto questo partito (e gli altri) sia soltanto un insieme di consociazioni che si occupano di convogliare voti individuali e non più di proporsi come un ambito collettivo che si connota per la sua offerta politica. E sull’inconsistenza del Pd, sulle sue ormai croniche divisioni, si concentra il risentimento critico della Bonino. A cui non è mai sfuggita la freddezza con cui in settori del partito sia stata accettata la sua candidatura. Ce l’ha in particolare con D’Alema che pur di allearsi con l’Udc sarebbe stato disposto ad affossare Vendola in Puglia, oltreché sperare che il Lazio andasse a Renata Polverini, appunto per dimostrare la necessità di quell’alleanza. Sarà anche cinicamente così, e non ci si stupirebbe. Ma in questa vicenda, più dei sospetti e dei veleni, è illuminante l’entusiasmo con cui Avvenire, il quotidiano dei vescovi, ha salutato la vittoria della destra nel Lazio. Più di D’Alema e più di Casini, a spostare voti e risultato finale c’è riuscito forse monsignor Bagnasco con il suo richiamo a non votare chi sostiene l’aborto.
Forse è per questo che Emma Bonino ha perso elettoralmente ma ha vinto politicamente. Con il suo incedere schivo e misurato, con quel rifuggire da una campagna elettorale comiziante ed esibita, ha raccolto consenso e considerazione indicando la strada su cui transitare per recuperare credibilità politica. È successo soprattutto a Roma, dove è riuscita a raccogliere quella domanda politica che i partiti non sono più in grado di intercettare, ad accogliere quel sentimento appassionato e critico, quell’insieme di intelligenze sociali: tutto ciò che sarà necessario per rimuovere Alemanno dal Campidoglio. Ma questo patrimonio non è sempre disponibile: ha bisogno di riconoscersi in un progetto innanzitutto liberato dal politicismo. In cui si intreccino proposte politiche e pratiche sociali, si valorizzino le esperienze locali e i modelli di governo territoriali.
Lo capiranno i partiti del centrosinistra romano? Capiranno che le confraternite di oligarchie in permanente e reciproco contrasto diventano impedienti di ogni possibile sviluppo positivo. Capiranno che devono mettersi finalmente in discussione e smetterla con le loro grottesche liturgie autoconservatrici? A occhio, non sembra: continuano in queste ore a cincischiare con le loro guerricciole.
Forse qualcuno dovrebbe dirgli che i partiti hanno sì bisogno della politica, ma la politica non sempre ha bisogno dei partiti.<//font>
Quel che agevolmente ha ottenuto la candidata radicale, staccare di nove punti Renata Polverini in città, e che, in minor misura, riuscì anche a Nicola Zingaretti, dà la misura di quanto scellerata sia stata la scelta politica del centrosinistra alle elezioni comunali di due anni fa. Due anni che sembrano trascorsi invano, se siamo qui a commentare un’altra sconfitta. Dove tuttavia si segnalano non tanto i limiti di una candidatura improvvisata ma accolta in assenza di alternative, quanto la rovinosa disgregazione dell’assetto territoriale dei partiti. Un assetto sempre più rarefatto via via che ci si allontana dalla città, e che non riesce più a dialogare con un elettorato culturalmente e geograficamente periferico. La Regione Lazio è andata perduta proprio qui, in questa vistosa divaricazione. Tra una città che ancora si segnala per tenuta sociale e cultura civile e una provincia che la politica non sa più presidiare, sempre più disancorata e lasciata ai margini, incollerita e rancorosa, oppure indifesa e dunque incline a semplificare. Una contraddizione antica che oggi prepotentemente si ripropone nella sua avvilente modernità, come notava Michele Serra ieri su Repubblica. A Roma, ma anche a Torino e perfino a Napoli: la metropoli tradita dai territori.
Non è l’unica ragione della sconfitta, ma certo la quantità di voti di destra a Frosinone o a Viterbo o nei Castelli romani è impressionante, assolutamente inedita. E stride con l’alto numero di preferenze di alcuni candidati del perdente Pd: a testimoniare quanto questo partito (e gli altri) sia soltanto un insieme di consociazioni che si occupano di convogliare voti individuali e non più di proporsi come un ambito collettivo che si connota per la sua offerta politica. E sull’inconsistenza del Pd, sulle sue ormai croniche divisioni, si concentra il risentimento critico della Bonino. A cui non è mai sfuggita la freddezza con cui in settori del partito sia stata accettata la sua candidatura. Ce l’ha in particolare con D’Alema che pur di allearsi con l’Udc sarebbe stato disposto ad affossare Vendola in Puglia, oltreché sperare che il Lazio andasse a Renata Polverini, appunto per dimostrare la necessità di quell’alleanza. Sarà anche cinicamente così, e non ci si stupirebbe. Ma in questa vicenda, più dei sospetti e dei veleni, è illuminante l’entusiasmo con cui Avvenire, il quotidiano dei vescovi, ha salutato la vittoria della destra nel Lazio. Più di D’Alema e più di Casini, a spostare voti e risultato finale c’è riuscito forse monsignor Bagnasco con il suo richiamo a non votare chi sostiene l’aborto.
Forse è per questo che Emma Bonino ha perso elettoralmente ma ha vinto politicamente. Con il suo incedere schivo e misurato, con quel rifuggire da una campagna elettorale comiziante ed esibita, ha raccolto consenso e considerazione indicando la strada su cui transitare per recuperare credibilità politica. È successo soprattutto a Roma, dove è riuscita a raccogliere quella domanda politica che i partiti non sono più in grado di intercettare, ad accogliere quel sentimento appassionato e critico, quell’insieme di intelligenze sociali: tutto ciò che sarà necessario per rimuovere Alemanno dal Campidoglio. Ma questo patrimonio non è sempre disponibile: ha bisogno di riconoscersi in un progetto innanzitutto liberato dal politicismo. In cui si intreccino proposte politiche e pratiche sociali, si valorizzino le esperienze locali e i modelli di governo territoriali.
Lo capiranno i partiti del centrosinistra romano? Capiranno che le confraternite di oligarchie in permanente e reciproco contrasto diventano impedienti di ogni possibile sviluppo positivo. Capiranno che devono mettersi finalmente in discussione e smetterla con le loro grottesche liturgie autoconservatrici? A occhio, non sembra: continuano in queste ore a cincischiare con le loro guerricciole.
Forse qualcuno dovrebbe dirgli che i partiti hanno sì bisogno della politica, ma la politica non sempre ha bisogno dei partiti.<//font>
Il Manifesto.it