La crisi libica e le ambiguità dell’Unione Africana – rivista italiana di geopolitica – Limes
16 Aprile 2011La crisi libica e le ambiguità dell’Unione Africana – rivista italiana di geopolitica – Limes.
RUBRICA GEES, CORNO D’AFRICA. Il Consiglio nazionale transitorio di Bengasi rifiuta la proposta di pace dell’Ua. Una via d’uscita regionale alla crisi è difficilmente percorribile. Le relazioni di Gheddafi con l’Africa e le crepe dell’architettura per la pace e la sicurezza continentale.
(Carta di Laura Canali tratta dalla trasmissione di RepTv “Libia, la strana guerra” – clicca sulla carta per la legenda)
Lunedì scorso il presidente del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) di Bengasi Mustafa Abdul Jalil ha rifiutato il piano di pace proposto dall’Unione Africana (Ua). L’inclusione del Rais – che invece aveva accettato in principio la proposta Ua – non ha convinto i ribelli, i quali premono per una soluzione che escluda tutti i membri della famiglia Gheddafi.
Il piano, presentato a Tripoli e a Bengasi rispettivamente il 10 e l’11 aprile da un High‐Level ad hoc Committee che agiva su mandato del Peace and Security Council (Psc), si componeva di quattro punti principali: immediata cessazione delle ostilità; cooperazione con le autorità libiche per provvedere alla distribuzione di aiuti umanitari alla popolazione; protezione degli immigrati, compresi i lavoratori stranieri residenti; e dialogo tra le parti in conflitto con avvio di una fase transitoria per adottare importanti misure necessarie al superamento dei problemi alla base della crisi.
L’High-Level ad hoc Committee, guidato dal presidente sudafricano Jacob Zuma, sembra non avere inciso più di tanto sui delicati scenari di una crisi che con molta probabilità è destinata a prolungarsi per diverso tempo. Al di là delle motivazioni date dai ribelli al rifiuto della proposta Ua, che si incentrano sull’assenza di un riferimento chiaro alla rimozione di Gheddafi, il ruolo che l’Unione Africana avrebbe potuto giocare in questa fase delicata del conflitto, come in tutta la crisi, resta molto contenuto.
Nonostante la delegazione africana si sia spinta decisamente più avanti rispetto ai falliti tentativi di negoziato proposti da Lega Araba e Nazioni Unite, riuscendo non solo ad includere Gheddafi, ma anche ad ottenere il suo consenso nelle trattative, le ragioni della frenata del piano Ua non andrebbero ricercate esclusivamente negli ultimi eventi. Le strette relazioni tra Tripoli e l’Unione Africana non rendono infatti l’organizzazione un attore credibile e imparziale agli occhi dei ribelli. Inoltre, l’evidente assenza dell’Unione in tutta la prima e più intricata fase della crisi ha reso l’ultimo tentativo di mediazione piuttosto sterile e, agli occhi dei bengasini, ambiguo.
Sulle posizioni dell’Unione africana rispetto alla crisi libica pesano le profonde differenze emerse all’interno del continente: in un primo momento Nigeria e Sudafrica erano in qualche modo favorevoli all’intervento militare, e Uganda e Ruanda profondamente riluttanti. In molti leggono le caute posizioni Ua come il riflesso più evidente del ruolo di Gheddafi nella costituzione stessa dell’organizzazione. Non è un caso – sottolineano i medesimi osservatori – che il processo di costituzione dell’Unione Africana sia stato avviato proprio dal vertice di Sirte del 1999, dove la sessione straordinaria dei capi di Stato e di governo dell’allora Organizzazione per l’unità africana (Oua) decise di dar vita alla nuova Unione, che sarebbe stata formalizzata in modo definitivo a Durban (Sudafrica) nel 2002.
Questa analisi, seppur corretta, è incompleta. Per capire al meglio il peso politico ed economico della Libia di Gheddafi nell’Africa sub-sahariana è necessario decifrare anche l’influenza di Tripoli all’interno dei singoli paesi. Il “ritiro” libico dagli scenari mediorientali e nordafricani negli anni Novanta, all’interno dei quali il rivale egiziano è sempre riuscito a prevalere, si riscontra nelle attuali posizioni della Lega Araba e dei suoi membri, ostili sin dal principio a trattare con il Qaid.
La politica della Libia di Gheddafi in Africa è notoriamente letta attraverso almeno due lenti interpretative. La prima considera la scelta del regime di virare verso il continente come il frutto del mancato sostegno diplomatico e politico da parte dei paesi arabi a seguito dell’approvazione dell’embargo Onu del 1992 per l’attentato di Lockerbie di quattro anni prima. La seconda ritiene l’impegno libico in Africa funzionale alla ricostruzione dell’immagine di Tripoli a livello internazionale, e dunque mirata alla sua riabilitazione, avvenuta effettivamente solo nel 2003, ma già anticipata dalla decisione Oua del 1997 di intraprendere alcune azioni in deroga all’embargo.
I rapporti con l’Africa sub-sahariana prima del 1997 erano stati piuttosto turbolenti. Il regime libico è stato più volte accusato di aver armato diversi gruppi ribelli, attraverso operazioni – come la “diamonds for guns” con la Liberia di Charles Taylor – volte ad acquisire il controllo di risorse naturali in cambio di forniture di armi leggere. Altri paesi destinatari delle armi libiche furono ad esempio la Costa d’Avorio, la Sierra Leone e la Repubblica Democratica del Congo. Va ricordato infine che negli anni Settanta e Ottanta la Libia entrò in conflitto con quasi tutti i paesi confinanti, tra cui Ciad ed Egitto, oltre ad essere stata al centro di delicati contenziosi sui confini con Tunisia, Algeria e Niger.
Il preludio alla definitiva svolta di Sirte del 1999 era arrivato un anno prima a Tripoli con la costituzione della Community of Sahel-Saharan States, organizzazione economica regionale volta a instaurare una zona di libero scambio tra i paesi del Sahel e dell’Africa occidentale, e che conta oggi 28 membri. Anche sul fronte orientale del continente, in particolare nel Corno d’Africa, il ruolo della Libia sembra da tempo essere importante, anche se è lecito chiedersi quanto.
Il rapporto di Gheddafi con il Corno, pur non sostenuto da massicci investimenti economici, si è sviluppato per lo più attraverso la costruzione di solidi rapporti bilaterali, specialmente con il governo eritreo e con le autorità somale, mentre più caute sembrano le relazioni con l’Etiopia di Meles Zenawi. Quando nel 2008 il governo di Isaias Afewerki è entrato in conflitto con Gibuti, lo stesso presidente eritreo, pur senza successo, aveva indicato il Qaid come possibile mediatore per il contenzioso sul confine. Un anno dopo lo stesso Gheddafi giungeva in visita in Eritrea, e nel 2010 Afewerki ricambiava recandosi a Tripoli. Anche i rapporti con la Somalia sono piuttosto costanti: basti pensare che la Libia è uno dei pochi paesi – se non l’unico – a conservare una rappresentanza diplomatica a Mogadiscio.
Di fronte alla crisi libica l’Africa gioca un ruolo ambiguo. Dietro l’apparente compattezza della missione Ua a Tripoli e a Bengasi vi sono le molteplici difficoltà di un’organizzazione che risente molto di una debolezza strutturale che non nasce solo da fattori organizzativi e finanziari. Le profonde fratture politiche e i complessi scenari di conflitto regionale che attraversano il continente minano infatti l’assunto dell’African solutions to African problems che fu alla base della nuova Unione Africana, peraltro in netta controtendenza rispetto allo spirito conservatore e non interventista della vecchia Oua.
L’architettura per la pace e la sicurezza africana sancita con il protocollo del 9 luglio 2002, quando fu creato il Peace and Security Council (struttura che si occupa della prevenzione e della gestione dei conflitti all’interno dell’Ua) mostra dunque diverse crepe. La Libia non è certamente il primo caso di incoerenza di fronte all’obbligo di intervento in caso di gross violations sancito dalla carta, e in molti guardano al Sudafrica come l’unica potenza continentale in grado di rilanciare il ruolo dell’Unione africana, non solo sul fronte della sicurezza, ma anche su quello più delicato – e forse più trascurato – della cooperazione politica.
Matteo Guglielmo è dottore di ricerca in Sistemi Politici dell’Africa all’Università degli studi “L’Orientale” di Napoli, autore del volume Somalia, le ragioni storiche del conflitto, ed. Altravista, 2008.
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