Di: Francesco Caruso – la lotta contro il neoliberismo dal g8 di Genova ad oggi.

20 Luglio 2011 0 Di ken sharo
pubblicata da Francesco Caruso il giorno martedì 19 luglio 2011 alle ore 21.30

Nel luglio del 2001 centinaia di migliaia di persone si riversarono  per le strade di Genova per contestare il vertice internazionale del  G8. Il Genoa social Forum, l’assedio ai grandi del pianeta, la morte  di Carlo Giuliani, le menzogne e le violenze poliziesche.

Tutto questo è avvenuto esattamente dieci anni fa.

Eppure le accelerazioni impetuose del turbocapitalismo già ci riconsegnano un ricordo sbiadito di quegli avvenimenti che sembrano  appartenere ad un’altra epoca ormai remota: la compressione spazio-temporale dell’ipermodernità e i dispositivi discorsivi che la  sorreggono non ci permettono infatti di inquadrare le nostre

esperienze di vita all’interno di quella braudeliana “lunga durata”  che potrebbe invece aiutarci nel definire una più consona  contestualizzazione e periodizzazione storica.

L’ipertrofico “consumo di eventi” nasconde l’infinitesima brevità di un decennio nella storia dell’umanità, così come l’insistente e reiterata invocazione deduttiva della “chiusura di un ciclo” nasconde molto spesso null’altro che il desiderio soggettivo di vivere e sopravvalutare il proprio tempo come dimensione cruciale “a cavallo della storia”.

Porre lo sguardo oltre la contingenza immediata, e possibilmente anche oltre il cortile di casa, ci aiuterebbe invece nel cogliere alcune tendenze dei processi storici sui quali sarebbe opportuno interrogarci: l’occasione del decennale del g8 di Genova ci può in questo senso venire incontro come stimolo per un esercizio di

riflessione collettiva che vada oltre le banalità ed i rituali delle ricorrenze.

Il primo elemento che credo vada messo in evidenza è come la tendenza generale della finanziarizzazione dell’economia capitalistica abbia determinato la crescita e la sedimentazione di percorsi di opposizione e conflittualità sociale, percorsi che nel ciclo delle lotte globali hanno trovato un primo forte momento di precipitazione.

Con il dispiegarsi della crisi e dei disastri sociali insiti in questa tendenza, è facile cogliere a distanza di dieci anni la capacità anticipatrice di quel movimento di mettere in luce le contraddizioni sistemiche.

Del resto la contestazione e l’opposizione alla finanziarizzazione è stato uno dei temi più rilevanti del movimento noglobal, presente nelle “salse” più variegate che vanno dalle versioni moderate, come la battaglia per l’introduzione della tobin tax, fino alle contestazioni più radicali di critica al capitale globale.

Se dieci anni fa i dispositivi discorsivi e governamentali del neoliberismo sono riusciti a garantire una fluidificazione “pacifica” della bolla speculativa dall’high-tech ai sub-prime, possiamo tuttavia leggere la deflagrazione attuale della crisi finanziaria in Occidente anche come la risultanza materiale della maturazione controegemonica di quel movimento.

Nel leggere l’espansione bulimica del d-d’ nei paesi occidentali come l’autunno del ciclo sistemico di accumulazione statunitense, tuttavia  dobbiamo sforzarci di guardare oltre il determinismo della World-Systems Analysis, per cogliere il ruolo cruciale della soggettivazione del conflitto sociale nel rapporto sempre aperto tra

lotte e sviluppo capitalistico.

In questa prospettiva è possibile cogliere un nesso tra il processo di ridislocazione del movimento noglobal e quello dei suoi nemici privilegiati: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale dopo aver accumulato per oltre un decennio l’odio e il discredito popolare, hanno progressivamente lasciato il passo alla presunta “neutralità” dei mercati come perno centrale della regolazione capitalistica attraverso le famegerate agenzie di rating internazionale.

La ridislocazione del movimento noglobal si è invece articolata attraverso un processo di territorializzazione delle istanze globali di giustizia sociale che ha rovesciato il tradizionale metodo deduttivo-aristotelico della critica al sistema, innervando quest’ultima nell’immanenza biopolitica del comune.

Forzando la mano sulla dimensione diacronica, possiamo osservare come il movimento noglobal abbia permesso non solo la provincializzazione  dell’anziana Europa ma anche un processo di maturazione del conflitto verso una dimensione glocale: la riscoperta centralità della sovranità locale e dell’autogoverno del territorio  come spazio di espressione della democrazia insorgente ha infatti favorito la decostruzione dei dispositivi discorsivi di comando incentrati sull’insensato mito eurocentrico dello sviluppo e del progresso.

La vittoria referendaria sui temi dell’acqua e del nucleare ne sono un esempio tangibile.

Oltre alla coppia locale/globale, il movimento in questi dieci anni ha dovuto divincolarsi anche attraverso altre dicotomie. violenza/non violenza è un esempio classico da questo punto di vista.

Il fallimento della sperimentazione per le strade di Genova dello sforzo di congiunzione tra radicalità e consenso implicito nelle pratiche della disobbedienza ha contribuito a denudare il potere nella sua più meschina essenza di monopolio bruto e brutale dell’uso della violenza, volatizzando prima sotto i colpi dei manganelli, delle torture e dei proiettili, poi a colpi di promozioni, assoluzioni e insabbiamenti, la retorica assolutizzante della nonviolenza.

Pur rifiutando l’estetica e l’autolesionismo della radicalità fine a sé stessa, tuttavia resta evidente come le eccedenze che hanno rotto gli argini il 20 luglio 2001 in via Tolemaide a Genova e il 14 dicembre 2011 in piazza del Popolo a Roma sono anagraficamente distinte ma politicamente legate dallo sforzo comune di sottrazione  dai dispositivi governamentali di controllo e di gestione del conflitto.

Una capacità di sottrazione analoga a quella che il movimento è riuscito ad esprimere dopo l’11 settembre, allorquando la potenza discorsiva dello scontro di civiltà ha cercato invano di seppellire il movimento sotto le macerie delle torri gemelle, mentre oggi stenta a mettersi in moto sul terreno più scosceso dei bombardamenti  non-violenti della Nato.

Il tentativo di incastrare e schiacciare il movimento noglobal all’interno di alcuni dispositivi discorsivi dicotomici per imbrigliare il suo portato di trasformazione sociale ha trovato ulteriore spazio nell’incapacità di sintesi tra la dimensione politica e la dimensione sociale.

In verità il superamento della contrapposizione politico/sociale è una sfida che attraversa e accompagna la storia e l’evoluzione dell’azione collettiva fin dai tempi in cui Vladimir Ilyich Ulyanov teorizzava l’estinzione dello stato come azzeramento della distanza tra politica e società.

Il controg8 di Genova, nella sua capacità di disvelamento da parte dei “senza parte” degli indirizzi politici “di parte” insiti nella presunta neutralità delle politiche neoliberiste, ha rappresentato un elemento approssimativo di politicizzazione delle lotte sociali che però non ha trovato articolazioni adeguate per andare avanti.

In questo senso hanno giocato un ruolo condiviso di salvaguardia della funzione pratico-inerte le soggettività organizzate, tanto all’interno degli incancreniti sindacati e partiti tradizionali quanto nelle reti diffuse dell’attivismo e dell’antagonismo sociale: la dissipazione di quell’enorme patrimonio di rottura, contaminazione e innovazione accumulatosi a ridosso del controvertice di Genova dimostra come il peso soffocante della burocratizzazione weberiana, intesa come primato

della conservazione dell’organizzazione rispetto all’innovazione, possa trovare spazio anche nelle formazioni più ribelli, o presunte tali.

Fortunatamente però la vecchia talpa non si stanca mai di scavare.

Se il terreno paludoso e putrido del nostro paese l’esorta per il momento a starne alla larga, questo non significa che abbia smesso di scavare.

Basta volgere lo sguardo oltre i confini della nostra piccola provincia italiana, resa asfittica e silente dalla falsa, e speriamo morente, dicotomia tra berlusconismo e antiberlusconismo, per accorgersi come lo “spirito di Genova” abbia travalicato i confini e messo radici nelle piazze degli indignados spagnoli.

Non si tratta solo di persone in carne ed ossa che hanno condiviso a distanza di dieci anni le esperienze di lotta dello stadio Carlini e degli accampamenti spagnoli dell’indignazione, ma di un processo più complesso di adozione, adattamento e reinvenzione di pratiche, strategie, identità e strumenti che si traslano da un movimento ad un altro, incurante già nel 1848 delle frontiere, figuriamoci oggigiorno nell’era del web 2.0.

La forza e la maturità di questo movimento è sicuramente rintracciabile nella capacità di concatenare istanze propriamente “politiche” di difesa degli spazi di agibilità e di partecipazione con istanze di giustizia ed equità “sociale”: gli elementi di significazione del movimento si sono infatti dislocati dalla critica alle degenerazioni del sistema partitocratico e del partito unico spagnolo del PPSOE (dall’unione delle sigle del partito popolare e del partito socialista), alle conseguenze sociali del “Patto dell’Euro”.

Se in Italia ancora si parla poco o nulla del MES e del tentativo esplicito di “depoliticizzare” le scelte neoliberiste attraverso la definizione di questo Meccanismo Europeo di Stabilità, in Spagna il movimento ha costruito progressivamente un’alfabetizzazione e una socializzazione popolare su queste tematiche che ha imposto la loro

ripoliticizzazione, e sottrazione dalla presunta neutralità dell’expertise tecnocratico, una ripoliticizzazione che si è spinta fino a mettere in discussione il totem della moneta unica europea, per oltre un decennio osannata come divinità riparatrice dei nostri mali moderni o postmoderni.

Di questo si discute oggi in Puerta del Sol a Madrid, in piazza Catalunya a Barcellona, in piazza Juan Cassinello ad Almeria. Né più nè meno che le stesse parole, attualizzate all’oggi, che hanno rimbombato per le strade di una città italiana in un caldo luglio di circa dieci anni fa.

Francesco Caruso

articolo uscito sul numero di giugno del mensile “Su la Testa”