Poveri No Tav, non bastano i lacrimogeni ora contro anche i “velinari” di turno
14 Luglio 2011Poveri No Tav, non bastano i lacrimogeni ora contro anche i “velinari” di turno.
fotografia “Cadoinpiedi” da archivio redazione N.R.
Poveri No Tav. Non bastavano lacrimogeni, mazzate e accuse di detenere, tra le altre pericolose armi di resistenza di massa, uno sparapetardi, bellamente ribattezzato “bazooka” dai velinari di turno. Nel vociare degli untori spiccano due vocine sul Corriere della Sera, paradigmatiche dell’aria che tira nelle stanze del Corrierone e nel resto del paese che tira a campare. La prima è quella di Antonio Polito, nato maoista e pasciuto a pane e riformismo, al punto d’aver tenuto a battesimo e diretto il Riformista, organo della sinistra (?) moderata, da lui ridefinita arancione. Sarà per divergenze cromatiche che, da editorialista del giornale principe della borghesia italiota, Polito si scaglia con particolare veemenza sull’estremismo rossoverde del “popolo del no”: quelli che nel nome di un protervo «rifiuto dello sviluppo» si schierano sempre per il no, a prescindere. No Tav, no Dal Molin, no discariche, no sempre e comunque: «No alle ferrovie e alle autostrade, alle centrali nucleari e alle pale eoliche e, ovviamente, alle basi militari». Tutti pregiudizialmente contrari «a qualsiasi opera pubblica» e «a ogni nuova infrastruttura destinata alla crescita dell’economia». Dalle medesime colonne anche Sebastiano Vassalli, tra i padri nobili della nostra letteratura, veste i panni di un novello Pasolini. Se il poeta, dopo gli scontri a Valle Giulia prendeva le difese dei proletari tutori dell’ordine borghese contro le violenze sessantottine degli eversori borghesi, il già poeta scrive: «In Val di Susa e attorno agli stadi del calcio la polizia, oggi, è il baluardo della ragione umana contro le forze oscure che si muovono al fondo delle nostra società. Contro le pulsioni di morte che ci portiamo dentro in quanto uomini». E chiude, il premio Strega, chiedendosi: «Cosa succede nella testa di un uomo perché diventi un black bloc?». Già. Che succede nella testa di un intellettuale che ha saputo descrivere in pagine bellissime le sfaccettature dell’animo e dell’avventura umana, di un’antica icona dell’avanguardia letteraria rinchiusa nella sua torre d’avorio, alias nel suo cascinale novarese? Paradigmatiche voci, dicevamo. Non solo di alcuni topos che disvelano l’humus (in)culturale di questo tempo. Sorvoliamo sugli spaventapasseri mediatici nerovestiti e sulla favola dello sviluppo infrastrutturale che talune grandi opere (pubbliche?) garantirebbero. Voliamo alti sul guazzabuglio concettuale che mette assieme protestatari d’ogni risma e colore, ultras e e antinuclearisti; altissimi su chi ancora parla di sviluppo quando tutti, tranne i kamikaze della “piana ipermercata” – splendida metafora del miglior Vassalli – hanno capito che l’idea della crescita senza fine, fine a sé stessa, è un nonsenso prima che una chimera. Come i benefici della globalizzazione e della guerra umanitaria. E l’unica parola d’ordine possibile è la decrescita, prima dello schianto a tutta velocità contro le barriere della storia. Che quasi mai s’identifica con lo sviluppo sic et simpliciter. Quando decine di migliaia di persone, uomini e donne, giovani e non più tali, dal nord al sud di questa penisola che fatica a stare assieme, scendono in campo per mostrare che un altro futuro è possibile e prende forma sotto i nostri occhi, ogni giorno di più, lontano dalle facce di una politica ridotta a nulla e malaffare, dagli occhi e dal cuore dei cantori del benessere. Quando ciò accade questo paese, che nonostante tutto si ostina a non soccombere alle falsità, alle violenze e all’idiozia, mostra di saper resistere, pensare e agire, contrariamente ai cervelli spenti nelle teste d’uovo dei cantori della lieta novella del capitalismo dal volto umano. È questa gente, la nostra gente parafrasando il fresco vincitore dello Strega, Edoardo Nesi, che fa la storia, anche se travestita da cronaca e sbeffeggiata, che è protagonista anche se messa in un canto. Finché, magari, un coro di no possa diventare un unico sì a una storia possibile, altra da questa. Ma qua voliamo davvero troppo alti perché chi è abituato a strisciare sull’esistente veda oltre ciò che si muove tra le sue pieghe.
Maurizio Zuccari