Una domenica di luglio. [pensando a Camus] | Reset Italia
10 Luglio 2011Una domenica di luglio. [pensando a Camus] | Reset Italia.
Caldo. Insopportabile caldo. Addizionato da una grossa percentuale di umidità, regola per la città eterna di questo mese. Sensazione di afa percepita più forte in certi luoghi, in certi posti, al cospetto di certa gente, che di quel caldo sembra nutrirsi. Dipartimento di psichiatria di un ospedale romano, ricavato in un angolo di un complesso più vasto, con tanto di giardinetto lastricato di nuovo e in un piccolo patio, un calcio balilla, certo teatro di molte battaglie all’ultimo goal, partite giocate per ricordarsi di essere vivi. In terra, mozziconi addentati e resi cenere, da incalliti fumatori; gli stessi che, dal momento in cui entri, ti guardano con un misto di curiosità e risentimento – ai loro occhi tu sei un uomo libero- chiedendoti nuove sigarette per nuovi mozziconi. L’atmosfera dell’interno è ovattata e serena insieme, riempita dalle note di una radio locale, per lo più tematica in quanto a tipi di musica. Colori pastello piuttosto ben accostati, mi fanno pensare che la cromoterapia ha guadagnato molta considerazione, in questo settore della medicina. Mi addentro nelle stanze alla ricerca di certezze che chiaramente non posso avere, stando attento a cogliere qualsiasi sfumatura che può darmi strumenti per capire. Cercare di capire. Le persone che solitamente vivono questi luoghi, probabilmente non possiedono quasi nessun tipo di certezza ma verosimilmente, neppure la cercano, lontani come appaiono negli sguardi. Io però mi trovo lì per altri motivi; per affetto verso delle persone, così come per quantificare in parte, quanto la mia vita sia lontana dalle loro. E rimango sgomento nel toccare con mano quanto la distanza sia in fondo labile. I ragazzi di oggi, sento un peso indescrivibile a fare un discorso in questi termini, credo abbiano molte delle caratteristiche che io avevo a vent’anni, e tante simili a coloro che, tra venti anni avrà la stessa età. Una cosa però mi induce a riflettere; hanno ancora e in che percezione il limite della paura? Voglio dire, quanto vedono la linea immaginaria della demarcazione tra il lecito ed il no. Quanto spazio intercorre tra la bravata giovanile e l’incoscienza che nelle psichiatrie di una metropoli, ti rigettano questa domanda retorica addosso in maniera continua e privata di risposte. Quando ero più giovane, non ho difficoltà a dire di aver avuto, come probabilmente molti, esperienze con le droghe, perlopiù leggere; la dimensione dello sballo vista quasi come una certificazione della raggiunta maggiore età, l’entrata nel mondo reale, la cultura della strada ed in compagnia di chi avrebbe avuto solo la strada come cultura. Periodo che ha lasciato qualcosa in ognuno che abbia avuto la conoscenza di quel mondo, nelle giornate dei bar, nelle discussioni urlate nella piazze, nel perdersi nel tempo. Droghe che giravano pure in certi ambienti prossimi allo studio, alle attività politiche, alle passioni giovanili di sempre. Lo spinello era un must per chi aveva deciso di vivere sino in fondo la giovinezza. Qualcuno poi, purtroppo andrò oltre, intraprendendo un percorso spesso senza ritorno; tra questi anche un amico carissimo, la cui giovane vita cessò in una macchina all’alba di un giorno d’estate di circa trent’anni fa, probabilmente caldo ed afoso come oggi. Ho sempre associato il caldo asfissiante a situazioni opprimenti, come a voler amplificare le pene a cui quel caldo sembra in qualche modo presenziare. Non posso non pensare con orrore ad esempio, alle celle delle carceri italiane normalmente sovraffollate, dove la sensazione di caldo insopportabile dei giorni estivi, diviene una pena ben più feroce di quella, già di per se enorme, di privare gli individui della libertà. In quel caldo crudele, di un reparto psichiatrico di un qualsiasi ospedale di una qualsiasi grande città, le domande corrono veloci, quasi quanto le immagini interroganti di chi porta in giro corpi che da tempo hanno smesso di vivere, domandandosi. E la domanda iniziale è la stessa, letta stamane, in una pubblicazione su Albert Camus, grande francese a cui spesso rivolgo con rispetto religioso, la mia attenzione.
[..] Ad ogni angolo di strada il sentimento dell’assurdità potrebbe colpire un uomo in faccia, penso alla frase e immagino sia stata scritta dopo una visita ad un ospedale psichiatrico, in un centro d’igiene mentale. Questo ambiente studiato nella sua ricercata compostezza, nel suo mostrarsi tranquillizzante ai tanti, uomini e donne, a cui l’assurdità della vita ha riservato un colpo in faccia, improvviso, magari inatteso, forse neppure cercato. Le vite delle persone si sa, mutano nell’arco di un giorno, di un treno che passa, di una frase non detta. I nostri continui discorsi sull’esistenza, spocchiosi e superficiali molte volte, che non prendono in esame il fatto che la vita, a volte, decide per noi, mi si mostrano in tutta la loro insulsa importanza. Sento di non poter esprimere nessun parere, tanto mi sento in imbarazzo ad incrociare gli sguardi di gente, probabilmente più sfortunata di chi li osserva. Fuori di qui la vita scorre nel suo solito incedere svogliato, sorda e cieca a questi luoghi di sofferenza condivisa, tra i pazienti e i loro cari. Le famiglie, che un giorno di luglio afoso come non mai, inconsapevoli e ignari, hanno incrociato loro malgrado l’angolo della strada di cui scrive Camus, ricevendo in pieno volto un colpo in viso. Colpo da cui poi, è difficile ma possibile, riprendersi.