Lettera di una trapiantata di fegato

9 Settembre 2011 1 Di CinziaLacalamita

Cristina Cabras è una trapiantata. Da poco più di un anno ha un fegato nuovo. Mi ha inviato una lettera, in cui mi racconta l’evoluzione del Centro Trapianti di Genova, evoluzione che ora ha dato il via ad un’ emergenza. Pubblico la sua lettera in forma integrale, senza modifiche, senza censure: perché così deve essere. E mi auguro venga divulgata il più possibile, ancora una volta senza modifiche e senza censure.

Cinzia Lacalamita

 A Genova c’è un’emergenza. Provo a parlarne perché ho vissuto e vivo la vicenda sulla mia pelle. Quindi Rettori, Prefetti e Amministratori possono esser sicuri che le mie parole sono dettate solo da amore per una famiglia che è anche mia e che non voglio perdere per le scaramucce o le paturnie di qualcuno.

Avevamo un Centro Trapianti Organo,un reparto nato molti anni fa grazie a “medici senza barriere”, pionieri che partivano con la loro macchinetta a prendersi un fegato a Firenze per regalarlo a un qualcuno che qui ne aveva bisogno. In breve tempo siamo diventati importanti,mezzo meridione viene qui. Non so perché ma sono contenta per loro.

Io sono una trapiantata, da poco più d’un anno. Seguita prima al DIMI,altro baluardo genovese che sta lentamente sgretolandosi,e poi affidata al Centro. In lista d’attesa per dieci anni, ho  avuto momenti duri più o meno. Ma fino all’ultimo ho sempre confidato nei miei angeli,il prof .Testa (al DIMI non c’è più ma ci stiamo seguendo…capita!) che mi ha affidata  per l’ultima chance al dott. Andorno. Ho conosciuto un numero considerevole di specializzandi che han lasciato man mano il posto ad altri. Ma io me li ricordo tutti per nome. Quando o per controlli o per ricoveri ero lì fissa, e loro al bar affranti o solo stanchi e sorridenti dopo ore di sala operatoria con il loro Maestro.

E i medici,gli altri ma sempre tuoi che ci son sempre stati,ma come fanno ad esserci sempre? Dove stanno?

Un trapianto non è un cambio olio alla macchina.I miei ultimi due anni li ho passati più lì che a casa.

Gli anestesisti,gli infermieri.E Danila e Margherita, sorelle non infermiere, attraverso le quali ognuno di noi passa il guado.

Nell’ultimo anno il reparto è stato accorpato alla chirurgia generale,provocando uno scadimento naturale nell’essenza stessa della destinazione originaria.

Per noi pazienti vuol dire, nel migliore dei casi, arrivare in corridoio e sentire che tira un’altra aria. Sconforto, disagio, demotivazione, scadenza di tutto quello che qui era perfetto.

Leggo di perdite consistenti e di destinazione impropria in questi ultimi anni del la struttura. Chiunque abbia una minima dimestichezza con la materia sa che noi siamo immunosoppressi, quindi se necessitiamo di un’ospedalizzazione o di cure sono i nostri medici che ci devono seguire.

Quindi, per carità, se ci son stati degli errori, riparateli. Però non pensate alle nostre vite solo in termini di ricavi e perdite.

E se il nostro Grande Padre, il prof. Valente, deve andare in pensione, non serve cercare nomi altisonanti per sostituirlo.

E, per favore, non tralasciate di ricordare che pazienti e personale sanitario sono persone. Che soffrono e vedono soffrire. Riservateci un pensiero dedicato.

E non lasciateci soli.

Ma non lo chiedo solo per me, per noi, che in un modo o nell’altro abbiamo già goduto di questo. È per tutti gli altri che ancora aspettano e avranno bisogno dell’organo e stan già correndo a Milano, non se ne legge ma so che è così.

La nostra cultura cattolica non avvantaggia la donazione degli organi; il rigetto è sempre in agguato; gli effetti collaterali dei farmaci; le difficoltà psicologiche per ognuno diverse ma importanti.

Sono tante le problematiche che gravitano intorno a chi ha bisogno di un trapianto  ma vi parlo di problemi veri.

Tutte le altre storie di media, budget, lobbies…sinceramente, e credo così la pensino tutte le degne persone che ho conosciuto da una parte e dall’altra della barricata in undici anni, vi chiedo di risparmiarcele e di ridarci il Nostro Centro.

Che la luce sia con noi.

 Cristina Cabras