Un filo lega quello che sta capitando in tante diverse plaghe d’Europa. Finora abbiamo cercato di spiegare questi fenomeni usando la categoria del populismo. Non è servito a niente.
Nella foto: proteste in Ungheria
Per dire: che cosa c’entrano i Forconi siciliani, di cui ci scrive Peppe Provenzano, con la nuova (e vecchia) destra al potere in Ungheria, che Marco Benedettelli e Alessandro Grimaldi ci raccontano nel loro reportage? Ma è chiaro, Palermo con Budapest non c’entra niente. Anche perché a Palermo non hanno la minima idea di chi fosse, che so, l’ammiraglio Horthy, e a Budapest non sanno che cosa sia un’infiltrazione mafiosa. Nel Terzo Millennio è particolarmente difficile, ma i casi sono due.
O ripeschiamo negli archivi della memoria almeno i rudimenti del caro, vecchio metodo dell’analisi differenziata, rinunciando così in partenza alla tentazione di sommare le pere e le mele. Oppure dobbiamo rinunciare in partenza a cercar di capire quel che ci capita intorno, e adeguarci alla prospettiva di vivere in un gigantesco spettacolo di suoni e luci, in cui ogni cosa, purché rimbombi e luccichi fino ad accecare, equivale a tutte le altre, e tutto scorre, senza lasciare traccia, a velocità portentosa.
La prima strada è naturalmente difficile, molto difficile. Anche perché ci siamo già tanto inoltrati sulla seconda da faticare persino a comprendere che gran parte dei nostri strumenti di interpretazione della realtà, ammesso pure che in passato fossero utili, si sono arrugginiti fino a diventare inservibili.
È vero che Palermo con i suoi Forconi è Palermo, e Budapest con il suo Orban è Budapest, e Parigi (dove tutti i sondaggi danno in forte ascesa madame Le Pen, e in calo ancora più forte il tradizionale rifiuto “repubblicano” della maggioranza dei francesi di riconoscere una qualsiasi legittimità al Fronte nazionale) è Parigi.
Ma un qualche filo che lega quello che sta capitando in tante e tanto diverse plaghe d’Europa, partiti che perdono pezzi, governi e istituzioni che traballano, nazionalismi e localismi che rialzano la testa, ci deve pur essere. Le premesse, i segnali (e qualcosa di più) c’erano da un pezzo.
Per anni, ma sarebbe meglio dire per un paio almeno di decenni, li abbiamo guardati con fastidio, sussiego e anche un po’ di disprezzo. Se abbiamo cercato di analizzarli, lo abbiamo fatto ricorrendo pigramente a una categoria, quella del populismo, che spiega tutto e niente. Adesso che rischiano di dilagare destre illiberali e movimenti radicali di protesta (chissà se prepolitici o postpolitici) dei quali sappiamo solo che sono lontani anni luce da noi, siamo senza parole. E i politologi, che non si sono letteralmente accorti degli sconvolgimenti che hanno investito e investono l’habitat di una politica sin troppo abituata a prestar loro orecchio, da prestarcene non ne hanno.
Ha ragione Ilvo Diamanti: meglio, molto meglio i sociologi, almeno quelli che hanno studiato e provato a raccontare a una politica del tutto indifferente i sommovimenti tellurici e i mutamenti molecolari della società italiana e, aggiungerei, delle società europee. Ma forse un aiuto ancora più sostanziale potrebbero e dovrebbero darlo gli storici. Perché questi movimenti sono inediti, sì, ma fino a un certo punto. All’origine della loro esplosione c’è anche, eccome, il riaprirsi di faglie antiche, e il riaffacciarsi, in forme in parte nuova, in parte no, di tensioni, di pulsioni, di rancori e pure di orrori che a torto si credevano archiviati da un pezzo.
Finché si fanno chiacchiere sugli indignati, non c’è problema. Ma se si vogliono almeno tentare delle analisi concrete di situazioni concrete, le cose si complicano. Per restare a Palermo e a Budapest. Chi non sa nulla della storia del ribellismo meridionale, di come in Sicilia tante volte si siano intrecciate l’antipolitica più feroce e la politica più oscura, difficilmente capirà qualcosa dei Forconi, recupero del “sicilianismo” ed eventuali infiltrazioni mafiose comprese.
Chi ignora quanto profonde siano le radici della reazione in Ungheria, difficilmente capirà qualcosa della nuova destra ungherese, della paura che suscita, delle resistenze che incontra.
Ragioni è una piccola cosa, un foglietto o poco più. Nutriamo, però, un’ambizione, o magari una presunzione. Per fare, come possiamo e come sappiamo, cultura politica, e una cultura politica non accademica, o si prova a lavorare con un minimo di sistematicità su questi temi, cercando di rintracciare in Italia e in Europa i fili che legano il passato e presente o è meglio lasciar perdere. Un po’ perché, come il famoso soldato di Napoleone, siamo tignosi; un po’ perché in questi due mesi la nostra ambizione (o la nostra presunzione) qualche riscontro lo ha avuto, ci proviamo. Dateci una mano a farlo di più e meglio di quanto, e non è pochissimo, siamo riusciti a fare sin qui.