Dietro le sbarre dormono in nove – Corriere del Mezzogiorno
11 Febbraio 2012 0 Di luna_rossaDietro le sbarre dormono in nove – Corriere del Mezzogiorno.

Bari, cibi ammucchiati e panni stesi oltre i vetri
Tra umidità e buio il viaggio al confine della dignità
BARI – I volti dei detenuti. I loro sguardi. Stupiti. Increduli. A tratti indecifrabili. Sperano forse che in questa grigia e fredda giornata di febbraio i due visitatori che camminano per i corridoi siano forieri di novità. Non è così. Ma sono quegli occhi rassegnati a segnare il confine. Tra il cuore della città e il carcere di Bari. Perché dopo aver varcato quella soglia i detenuti metteranno da parte dignità e intimità. Al di là dei reati di cui sono responsabili, saranno costretti a dormire quasi uno sull’altro su letti a castello che sfiorano il soffitto, impareranno a condividere per quasi 20 ore al giorno, in 9 persone, uno spazio non più grande di 25 metri quadri.
Dove pacchi di pasta, confezioni di carne, insalate, tegami, cestini ricolmi di rifiuti, borsoni, scarpe, panni di ogni tipo e figurine di santi, sono sparpagliati ovunque in quella minuscola cella. E i benefici non arriveranno neppure con il decreto «svuota carceri» della ministra Severino che in questi giorni ha ottenuto la fiducia alla Camera.
Perché il carcere di Bari è una casa circondariale e non di reclusione: cioè, che il 70% dei detenuti presenti sono in attesa di giudizio (quindi non possono essere scarcerati) e quei pochi definitivi hanno più di 18 mesi da scontare (il decreto prevede di estinguere l’ultimo anno e mezzo di detenzione agli arresti domiciliari) e molti di loro non sono nelle condizioni di poter lasciare l’istituto penitenziario perché hanno legami con la criminalità organizzata.
Diverso è invece per le carceri di reclusione (come Turi, Lecce e Foggia) dove sono ristretti i condannati in via definitiva: qui i problemi di sovraffollamento saranno più gestibili. Esaminati i punti principali del decreto, a conti fatti dall’istituto penitenziario di Bari, usciranno a malapena una trentina di detenuti. Nulla rispetto ai numeri del sovraffollamento: 508 detenuti rispetto alla capienza di 292 dettata dai parametri dell’Unione Europea.
Il viaggio all’interno del carcere di Bari inizia dal piano terra della prima sezione composta da due piani. Qui si trovano i detenuti comuni: quelli responsabili dei reati comuni non legati all’associazione mafiosa. La zona è quella di media sicurezza. Si attraversa un lungo corridoio con pareti bianche e celesti rovinate dal tempo e dall’umidità dove ci sono le stanze di accoglienza (per i detenuti appena entrati nella struttura) le cucine, la cappella e si raggiunge l’area centrale a raggiera, da dove si snodano le sezioni. Due porte in ferro vengono aperte e poi richiuse con grandi chiavi di ferro dorate. Siamo già faccia a faccia con i detenuti che da quelle minuscole stanzette infilano i visi tra le sbarre e ci guardano incuriositi. «Buongiorno», salutano. Tutti. Quasi in coro. I corridoi sono lunghi e larghi: le stanze detentive sono da entrambi i lati. Le porte sono vecchie, arrugginite. All’interno i carcerati sono davvero stipati e a malapena riescono a stare in piedi tutti insieme. Ma non ci sono solo le celle: c’è la stanza del cappellano, l’infermeria, l’aula per chi frequenta la scuola elementare con lettere gigantesche e disegni di fiori e animali appesi alle pareti, e poi ci sono piccolissime stanze vuote, con tavoli minuscoli e qualche sedia di fortuna dove giovani volontari stanno ultimando un’iniziativa per i detenuti legata al mondo delle favole. Vicino ad una cancellata enorme a penna è stato scritto «prima sezione». Davanti c’è un poliziotto fermo. Al di là ci sono le scale che portano ai piani superiori della prima sezione della casa circondariale. Alcuni carcerati stanno scendendo per l’ora d’aria in un piccolo cortile dove possono tirar due calci ad un pallone o al massimo camminare avanti e indietro. Sono in pochi perché fuori sta diluviando. I poliziotti controllano i reclusi uno ad uno. Perché chiediamo? «Viene sempre fatto un controllo di sicurezza quando vanno fuori – ci risponde un agente – non si sa mai soprattutto dopo i colloqui con i familiari».
Si sale al secondo piano della prima sezione: qui la situazione è più o meno uguale. Ci è consentito di visitare solo la cella numero 15. Non prima che i nove detenuti siano usciti. Dall’esterno si scorgono già le file dei letti a castello e le finestre altissime con le sbarre rovinate dagli anni. È una gabbia vera. Lo è soprattutto per gli spazi. Una volta all’interno ciò che si vede è assurdo. Tre letti a castello di tre piani. I nove carcerati dormono a pochi centimetri l’uno dall’altro e colui che dorme in alto rischia di sbattere la testa contro il soffitto. Uno dei letti è a pochi centimetri all’unico termosifone: è quasi grottesco. Agli angoli del muro in alto ci sono buste di plastica colorate con qualche indumento: i panni lavati sono appesi alle sbarre (c’è da chiedersi come facciano i detenuti ad arrampicarsi fin lassù); sul muro proprio sopra l’ingresso della cella c’è il disegno di Padre Pio, poi qua e là sono appese altre figure di santi. C’è un piccolo televisore sistemato tra un piano e l’altro del letto in una posizione infelice, anzi inutile: a meno che i detenuti non siano tutti in piedi, uno attaccato all’altro, è praticamente impossibile vedere la tv. Poi c’è una cucina e un lavabo: qui sono ammucchiati i cibi acquistati dai detenuti. C’è di tutto: pasta, carne e verdure. Piccole padelle sono agganciate ai muri, su scaffali che si reggono a stento sono sistemate bottiglie di olio. C’è anche una caffettiera. Poi c’è il bagno con l’essenziale: anche qui sono appesi i panni e in giro ci sono tante paia di scarpe. Il caos regna ovunque. Uscendo dalla cella, dove anche con i poliziotti ci si muove a fatica, i 9 reclusi in fila indiana tornano all’interno. La porta sbatte alle nostre spalle. Dopo aver ottenuto una liberatoria, ecco due detenuti: hanno voglia di parlare. Ma allo stesso tempo sono intimoriti, guardano insistentemente i poliziotti della penitenziaria. Il primo a parlare è Giovanni Di Sandiego, 33 anni, ha due bambini di 3 e 6 anni: sta scontando una pena definitiva a sette mesi: «Sono state le cattive compagnie a portarmi qui, ma fuori voglio rigar dritto. Ci sono mia moglie e i piccoli ad aspettarmi. Troverò un lavoro. Il sovraffollamento? La situazione è critica: io divido la cella con altre 8 persone. Spero che il tempo voli». Poi c’è Giuseppe Maiellaro, romano 47enne, deve scontare 4 anni e 3 mesi . «Sono vedovo, ho tre figli grandi. Frequento dei corsi all’interno del carcere che mi daranno, spero, una possibilità di inserimento nella vita sociale. Cosa mi ha portato qui? Al dì là dei luoghi comuni,ho dovuto fare i conti con problemi economici e familiari». Giuseppe sorride, nei suoi occhi c’è la speranza. Dopo circa due ore si esce dalla prima sezione ripercorrendo quel lungo corridoio. La seconda sezione è chiusa da maggio per lavori di ristrutturazione: non è consentito visitare la terza e la quarta. Quest’ultima e quella di alta sicurezza: qui ci sono i detenuti legati alla criminalità organizzata. Le celle sono più vivibili e non ci sono grossi problemi di sovraffollamento. Ci si avvia verso la sezione femminile. Mentre i pesanti cancelli del carcere maschile vengono chiusi rumorosamente alle nostre spalle.
Angela Balenzano