Il pretesto, questa volta, l’ha fornito l’affondamento della Costa Concordia: ma la diatriba tra i due popoli si ripresenta ciclica. Complici i giornali.
Nella foto: la Costa Concordia
È una vecchia storia. Vuoi o non vuoi basata su presunti “caratteri nazionali” reciprocamente poco compatibili, la diatriba fra italiani e tedeschi si ripresenta ciclica. Inaffidabili e vanesi i primi per i secondi; quadrati, pesanti e un po’ nazisti i secondi per i primi. Così l’occasione per uno scambio d’accuse rimane latente e, da almeno settanta anni a questa parte, l’uomo ladro non manca mai.
Il pretesto, questa volta, l’ha fornito l’affondamento della Costa Concordia, dove i tedeschi hanno avuto le loro vittime: quattro morti, sei dispersi. Ma bastava guardare le parole usate dall’editorialista dello Spiegel-Online Jan Fleischhauer – colui che questa volta s’è assunto l’onere… – per capire che sì, d’accordo, la Concordia, ma che in gioco c’è ben altro! E cioè sempre la stessa cosa. «Mano sul cuore: – s’interrogava Fleischhauer lo scorso 23 Gennaio – si è stupito qualcuno del fatto che il comandante della sciagura della Costa Concordia fosse un italiano? Ci si può immaginare una simile manovra, compresa di fuga finale del capitano, condotta da un comandante tedesco o, diciamo meglio, britannico?»
Ovviamente no. E Fleischhauer prosegue, prima pescando da memorie turistiche proprie e collettive – «Li conosciamo questi tipi, dalle vacanze in spiaggia…ampi gesti e dita parlanti…fare bella figura è lo sport nazionale italiano…anche Schettino voleva fare bella figura. Peccato che uno scoglio…» – poi prendendo il toro per le corna. «Con il carattere nazionale ci si comporta come con la differenza di genere. Qualcosa di abolito da tempo, anche se poi ci cozziamo contro ad ogni passo nella vita quotidiana».
E allora, per una volta, bando alle ipocrisie e diciamo le cose come stanno, che poi è anche normale che le nazioni differiscano fra loro: «Ci sono motivi climatici, e anche la lingua gioca un suo ruolo». «Normalmente questo non sarebbe un problema, solo non si dovrebbe costruire una politica sul presupposto che i confini abbiano ormai valore esclusivamente figurato». Altrimenti, eh sì, «ciò che può succedere lo mostra la crisi valutaria che abbiamo sotto gli occhi in questi giorni». Anche «perché l’uomo al comando accentra su di sé tutte le attenzioni – è l’inappuntabile conclusione di Fleischhauer – E quello che è lo scoglio davanti alla nave, diventa nel mercato il tasso d’interesse».
Chi, a fronte di simili argomentazioni, avesse immaginato in risposta un divertito silenzio, una distaccata osservazione alla Monti o un serio intervento alla stupidità, le cui bronzee leggi affratellano uomini e donne di ogni razza e colore, avrebbe ovviamente sbagliato. Perché sulla trincea italiana le vedette non dormono, e la riva del Piave è netta quanto quella del Reno.
Così, già il giorno stesso dalle nostre linee – La Repubblica – si rispondeva nel modo seguente: «Il senso di tutto il ragionamento (di Fleischhauer, ndr) che forse sarebbe tanto piaciuto al ministro della Propaganda del Reich, Joseph Goebbels? […] » E, dopo aver ricordato fra l’altro gli aiuti alla Germania del Piano Marshall, si rilanciava: «Allora, vogliamo parlare di carattere nazionale? Americani e britannici troppo spendaccioni e generosi con l’ex nemico, italiani, spagnoli e turchi troppo laboriosi alle catene di montaggio, Volkswagen e Mercedes? E tedeschi incorreggibili dopo la Weltanschaung nata da loro fra il 1933 e il 1945 secondo cui le nazioni non sono comunità di valori come nel mondo moderno, bensì solo razze come cavalli e cani?». Questo, a caldo. Mentre a freddo contrattaccava il Giornale il 27 di Gennaio, aprendo in prima pagina con una bella Lettera ai tedeschi del direttore Alessandro Sallusti e un titolo cubitale che non lascia adito a dubbi: A noi Schettino. A voi Auschwitz. Ecco, ora sì che abbiamo detto come stanno le cose. Anche se di passaggio abbiamo trascurato il vecchio adagio, secondo cui nel parlare con uno sciocco converrebbe tener bassi i toni. Altrimenti gli altri potrebbero non cogliere la differenza.
I tedeschi ruttatori e ubriaconi “sulle nostre spiagge” dell’allora (2003) sottosegretario leghista alle Attività produttive Stefano Stefani, giustamente con delega al turismo; la versione tedesca del titolo del film di Nanni Moretti Il caimano che diventa Der Italiener; Berlusconi e il kapò Martin Schulz; gli ultimi mondiali di calcio, durante i quali – fra molte altre cose – circolava su youtube il video di una localissima rock-band della Bassa Baviera che, chitarra e batteria alla mano, formulava un unico auspicio o condizione: «Solo l’Italia no!». Sott’inteso: vincere i Mondiali, perché gli Italiani sono veramente troppo viscidi e mafiosi. A quanti ritorni di polemiche più o meno note – a quante reciproche sceneggiate -abbiamo assistito anche solo in questi ultimi anni?
La domanda la giriamo a Gian Enrico Rusconi, fra i germanisti italiani sicuramente uno di quelli che la querelle italo-tedesca l’ha indagata più a fondo facendo i conti – e da tempo – con il perpetuo riproporsi degli stereotipi. Professore, quante volte? «Tante, troppe. Pensi che in quest’occasione volevo scrivere qualcosa e poi mi sono trattenuto. Ma sì, parlare seriamente delle cose serie non serve a niente. Nel mio lavoro di storico dei rapporti fra Italia e Germania ho mostrato come le radici profonde del pregiudizio reciproco fra Italiani e Tedeschi riportino al cuore dei traumi storici delle due guerre mondiali. La rivisitazione storiografica di questi fenomeni però non è stata minimamente percepita dal giornalismo. Che quindi rivanga tutti i vecchi pregiudizi».
«Per cui – riprende Rusconi – direi che a questo punto e a questo livello almeno un grande responsabile lo si può individuare, e cioè la pubblicistica. O almeno quel tipo di pubblicistica che – per vari motivi – all’informazione preparata e obiettiva preferisce l’inerziale, dannoso, rilancio dei clichés. Mentre la lotta al pregiudizio implica una seria rivisitazione storica degli episodi che ne sono alla radice».
Questa volta però qualcosa sembra essere successo. Intanto la consolante valanga di improperi e lazzi riversata in rete all’indirizzo di Sallusti e del suo Giornale. Poi la – luminosa, possiamo dirlo? – lettera inviata da Paola (deputata Pd) e Ricarda Trautmann Concia – l’una italiana, l’altra tedesca, l’una residente in Italia, l’altra in Germania, sposate – al direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli e pubblicata il 28 di gennaio. Paola e Ricarda che dal loro “amore al tempo dello spread”, oltre ad invitarci «ad una risata su questi stereotipi» e a passare oltre, mandano però a dire: «Costrette a un confronto serrato tra ciò che accade in Italia e ciò che accade in Germania, ci scambiamo informazioni sull’ immagine che ciascun Paese offre all’ altro Paese. Preoccupante, a nostro parere. […] Abbiamo quindi deciso di scriverle per darle, umilmente, il nostro punto di vista incrociato. Siamo convinte che in entrambi i Paesi […] si stia correndo il rischio di ricadere in antichi odi alimentati da stereotipi che pensavamo superati».
«Perché accade questo? – continuano le due – Perché quegli articoli sprezzanti di Der Spiegel verso gli italiani? E perché riaffiorano in Italia con tanta facilità i vecchi pregiudizi sui tedeschi cattivi e arroganti? In Germania non tutti i tedeschi sono rigidi, intransigenti e ottusi, come in Italia non è vero che nessuno rispetta le regole. A noi due viene facile dire che bisognerebbe riuscire davvero a valorizzare le differenze, perché queste sono una ricchezza».
«È proprio questo il problema», ribatte Rusconi: «Da un lato un giornalismo così di bassa lega che anche molta gente ne è stufa, essendo già oltre. E dall’altro l’impossibilità di liquidare tutto questo come baruffe pseudo-giornalistiche che lasciano il tempo che trovano. Perché andare a solleticare il basso ventre dei nazionalismi e dei campanilismi non è mai senza conseguenze. Ragionare per stereotipi significa presumere di saper com’è fatto l’altro ancor prima di conoscerlo, pregiudicandosi così la possibilità di conoscerlo sul serio. D’accordo per Paola e Ricarda Concia; ma all’effetto che parole come quelle di Fleischhauer o Sallusti possono avere su masse di persone che hanno tutt’altre vite ed esperienze, vogliamo pensarci un attimo?».
Ecco, pensiamoci un attimo. Magari tenendo presente come da anni in Europa – complici le ricadute del progetto comune a medio, e della globalizzazione a lungo raggio – vadano crescendo e organizzandosi spinte isolazioniste e protezioniste, inevitabilmente rivolte a una qualche forma di (sub)-nazionalismo identitario. Non sono bagatelle: forse a ripresentarsi sono le linee di faglia lungo cui l’Europa s’è tormentata per secoli, dilaniandosi infine in una nuova guerra dei Trent’anni che si è conclusa con l’abdicazione del Vecchio Continente e il trasferimento della city del mondo sulle rive del fiume Potomac.