Matteo Renzi, premier senza partito Ma Mafia Capitale può cambiare tutto – espresso.repubblica.it

13 Dicembre 2014 0 Di macwalt

espresso.repubblica.it – Matteo Renzi, premier senza partito. Ma Mafia Capitale può cambiare tutto. Da Napoli a Bologna, 
il segretario non controlla il Pd. Ma il terremoto di Roma potrebbe dargli carta bianca, mentre le primarie per la regione Campania lo mettono di nuovo di fronte al potere dei signori delle tessere – di Marco Damilano

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La svolta nel partito non la farà Matteo Renzi. E neppure Matteo Orfini. La farà Giuseppe Pignatone». Nel Pd romano, travolto dall’operazione Mafia Capitale, parlano ormai come i socialisti milanesi nel 1992, quando fu il pool di Mani Pulite a tranciare i nodi che la politica non era riuscita ad affrontare.

Dicembre 2014, anno primo dell’era Renzi alla guida del partito e del governo del Paese, il segretario-premier ha festeggiato la ricorrenza sotto un capannone dell’ex mattatoio romano nel quartiere di Testaccio soffiando una candelina su una Sacher Torte, «vi do una brutta notizia, questo è il primo di quattro compleanni, da ora in poi la scadenza del leader e della legislatura dovranno coincidere».

Ma c’è poco da rallegrarsi. Perché dopo un anno di segreteria, nonostante la guida di governo, il trionfo alle elezioni europee e un gruppo dirigente in apparenza compatto attorno al capo, Renzi scopre che far cambiare verso al Pd è maledettamente difficile. Tra il leader e il suo partito c’è un Mondo di Mezzo. Sconosciuto, inafferrabile.

Roma è l’epicentro del terremoto, in cui politica e giustizia si incrociano. Con i due testacoda che hanno coinvolto i vertici nazionali. Appena tre settimane fa il Pd romano si era riunito per lanciare al sindaco Ignazio Marino un ultimatum: azzerare la giunta, con nomi indicati dal partito, o dimettersi. Un diktat sostenuto dal vice-segretario Lorenzo Guerini e dal capogruppo al Senato Luigi Zanda. Dopo gli arresti eccellenti che hanno fatto sussultare il Campidoglio è arrivato il contrordine. Marino non si tocca, assicura Orfini, nominato commissario del partito romano da Renzi, e se si dovesse tornare al voto per il Comune il candidato sindaco sarebbe ancora lui.

Il secondo sbandamento riguarda la cena di auto-finanziamento del Pd all’Eur il 7 novembre, fiore all’occhiello del nuovo corso renziano, niente soldi pubblici e fund raising modello Democratic Party. Si scopre dalle intercettazioni che Roma è sì come Chicago, ma non quella di Barack Obama, purtroppo, quella degli anni Trenta dei boss intoccabili. Troppo imbarazzante la presenza in quel convivio del capo della cooperativa 29 giugno Salvatore Buzzi, uomo forte della Lega Coop a Roma e secondo l’inchiesta socio di Massimo Carminati. E così la lista dei presenti che hanno pagato mille euro per sedersi a tavola con il presidente del Consiglio scompare. Niente trasparenza.

Matteo Orfini
Matteo Orfini

C’è chi se la prende con il vecchio partito delle tessere, tutto sezioni e capibastone. «Non siamo riusciti a superare quel modello ed ecco i risultati», denuncia il deputato Walter Verini, per anni braccio destro di Walter Veltroni che con amarezza ha ritrovato tra gli arrestati il suo ex vice capo di gabinetto in Campidoglio Luca Odevaine. «Walter ha provato a fare pulizia, ora tocca a Renzi portare a termine quel lavoro». E c’è chi come il presidente del Pd e commissario romano Orfini, al contrario, punta il dito sul partito liquido costruito negli ultimi anni, quello fondato sulle primarie aperte (leggi: permeabili) e sulle posizioni di comando contendibili (ovvero: scalabili).

Quando, invece, la vera sciagura delle varie leadership del Pd è di aver permesso che convivessero le abitudini peggiori dei due modelli organizzativi. «Abbiamo fatto un partito all’americana con i metodi sovietici», sintetizza un deputato romano. «Faccio un esempio. Per correre alle primarie per scegliere i parlamentari che furono poi candidati alle elezioni nel 2013 servivano cinquecento firme di cinquecento iscritti al partito. In teoria doveva servire a sbarrare la strada a giochi poco puliti, nella realtà c’è stata la gara a comprare le tessere. Dieci, quindici euro a tessera, cinquemila euro, un piccolo investimento per un aspirante parlamentare».

Nelle parlamentarie votarono 45mila romani, primo arrivò Stefano Fassina, terza con 6.815 voti Micaela Campana, la deputata che si scambiava sms amichevoli con Buzzi, quarto Umberto Marroni, l’ex capogruppo Pd in Campidoglio presente nella foto alla cena della coop 29 giugno con il futuro ministro Giuliano Poletti e Gianni Alemanno. Distanziati personaggi carismatici e conosciuti sul piano nazionale come Walter Tocci o Roberto Giachetti. In una città in cui chiudono le sezioni storiche (la settimana scorsa quella di Cinecittà) e si azzoppano i leader. E il commissariamento del Pd romano indebolisce anche il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti, potenziale futuribile competitor di Renzi a sinistra.

Tessere, preferenze e primarie. Un mix micidiale. Storie del passato, di quando c’era la Ditta e il Pd lo guidava Pier Luigi Bersani (qualcuno ricorda quel gazebo alla periferia est della Capitale in cui un vecchietto si presentò con un foglietto a quadretti: «Mi hanno detto di votare per Borsani, quello della sinistra»?). Macché. Basta scendere duecento chilometri a sud di Roma e proiettarsi nel futuro per anticipare il prossimo pasticcio nazionale.

L’11 gennaio 2015 sono convocate le primarie per scegliere il candidato del Pd alla presidenza della regione Campania, oggi rimasta l’unica governata da un esponente di Forza Italia e dell’antico centro-destra, Stefano Caldoro. Una partita tormentata. I seggi dovevano aprirsi domenica 14 dicembre, poi è stato tutto rinviato all’anno prossimo. In gara ci sono due big e un’outsider, la senatrice salernitana Angelica Saggese, che, per far capire che aria tira, fa rimbalzare su twitter una dichiarazione di Orfini («Le preferenze se usate male favoriscono le infiltrazioni. Ripulire il Pd romano») e aggiunge: «Massima attenzione ovunque».

Allerta massima in Campania dove i due candidati maggiori sono i campioni di uno scontro ventennale. Napoli contro Salerno. Ovvero Antonio Bassolino contro Vincenzo De Luca. Una rivalità cominciata negli anni del Pci e transitata senza interruzione di partito in partito, dal Pds ai Ds al Pd. Bassolino non si candida, si gode il proscioglimento pieno da ogni vicenda giudiziaria e una crescente nostalgia della sua stagione in città. Bassolino c’è, ma non si vede. Al suo posto c’è l’europarlamentare Andrea Cozzolino, 115mila preferenze alle europee del 25 maggio, già in corsa tre anni fa alle primarie per il sindaco di Napoli che si conclusero nel peggiore dei modi, con un annullamento che spalancò la strada all’uomo fuori dai partiti Luigi De Magistris. Nel 2013 Cozzolino al congresso ha sostenuto il rivale di Renzi, Gianni Cuperlo. Il sindaco di Salerno De Luca diventò renziano, dopo essere stato bersaniano, con una prova di forza strabiliante: trascinare il 97 per cento dei votanti a scegliere Renzi dopo aver consegnato un anno prima una percentuale bulgara a Bersani. È la regola del cuius regio, eius religio: basta convertire il monarca per ribattezzare un popolo.

Una sfida che viene da stagioni passate e che a Roma non piace per nulla. Renzi, tramite il sottosegretario Luca Lotti, si muove per indicare un terzo uomo. È una figura nazionale: Gennaro Migliore, 46 anni, passato da Sel al Pd arruolandosi direttamente nella corrente del premier senza passare dalla sinistra interna, con un intervento applauditissimo al meeting renziano della stazione Leopolda.

Immagine di sinistra, fuori dallo storico derby De Luca-Bassolino. La soluzione piace anche allo stesso Bassolino, sembra fatta, Cozzolino fa capire di essere disposto a ritirare la candidatura se c’è «un nome unitario». E invece va superata l’ostilità di De Luca che minaccia di candidarsi con una lista civica: «Sono così democratico e aperto che può candidarsi anche Migliore, peggiore o chi volete voi, ma prima deve fare le primarie». Tra i desideri dei fiorentini di Palazzo Chigi e i notabili del Golfo c’è lo statuto del partito che prevede un voto dell’assemblea del Pd regionale per annullare le primarie con un quorum del sessanta per cento dei delegati. «E qui cominciano i dolori. Siamo nelle mani di Casillo», sospira un dirigente napoletano.

Casillo inteso come Mario, super-votato alle elezioni regionali del 2010 con 18mila preferenze, figlio d’arte (il padre sindaco Dc di Boscoreale, comune di 26mila abitanti del napoletano), capocorrente dell’attuale segretaria regionale del Pd Assunta Tartaglione e grande alleato di De Luca nella provincia di Napoli. Casillo controlla un bel pezzo di assemblea. E senza firmare un accordo con lui Migliore non va da nessuna parte. E neppure il premier-segretario.

Basta un uomo chiamato Casillo a fermare Renzi? Così dicono. È il signore delle preferenze che controlla le primarie. Sono i micronotabili, come li ha definiti il politologo Mauro Calise, a condizionare qualunque cambio di verso e a sopravvivere a qualsiasi rottamazione renziana appena si scende di livello, dalla grande politica di Palazzo Chigi alla gestione del partito. A Napoli, a Roma e quasi ovunque al Sud.

In Puglia si è appena votato per scegliere il candidato presidente, ha vinto come era nelle previsioni l’ex sindaco di Bari Michele Emiliano, renziano non allineato con il premier, al punto che alle ultime europee rifiutò di candidarsi al secondo posto come portatore di voti della deputata Pina Picierno paracadutata da Roma. In Calabria il neo-presidente Mario Oliverio è quanto di più lontano ci sia dal Renzi style: un dinosauro della politica con quattro legislature alle spalle, orgogliosamente post-comunista. Ma non sono fenomeni esclusivamente meridionali. In Emilia, dove Renzi ha preferito lasciar correre Stefano Bonaccini piuttosto che mettere mano a un rinnovamento radicale del Pd, è rimasto a casa quell’elettorato che più aveva sperato nel cambiamento evocato dall’ex sindaco di Firenze. E perfino dalla Toscana interamente renzizzata arrivano segnali d’allarme.

A Livorno il 7 dicembre si è votato per eleggere il nuovo segretario provinciale, dopo la batosta elettorale che ha portato un grillino alla guida del Comune dopo decenni di ininterrotta egemonia della sinistra. Risultati sconfortanti: appena 3.600 votanti, 1.800 voti e quorum raggiunto per un soffio dal sindaco di Collesalvetti Lorenzo Bacci, il candidato della Trojka fiorentina, come chiamano in Toscana il trio che guida il Pd locale per conto di Renzi (Dario Parrini, segretario regionale, Antonio Mazzeo, capo dell’organizzazione, Nicola Danti, europarlamentare). L’anticamera di quello che potrebbe succedere alle prossime elezioni regionali: astensionismo, fuga dalle urne, una classe dirigente poco autorevole. Sotto Renzi il nulla.

Finora il premier ha ignorato il problema. Come se le beghe del Pd non lo toccassero o potessero risolversi nell’accumulare qualche casella di potere in più. «Problemi secondari», li ha liquidati il leader, come ha fatto con lo sciopero del voto in Emilia. Ma l’accelerazione del premier sulla legalità testimonia che lo scandalo romano per Renzi è la grande occasione. Impadronirsi finalmente del partito. O lasciare che tutto prosegua come prima, nel caotico, ingovernabile Mondo di Mezzo del Pd.

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