Miho Kajioka I fantasmi di Fukushima – ilmanifesto.info

17 Dicembre 2014 0 Di macwalt

ilmanifesto.info – I fantasmi di Fukushima. Interviste. Un incontro con la fotografa giapponese Miho Kajioka a Roma per presentare la sua primam personale presso la galleria Microprisma  —  Manuela De Leonardis

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Una tazza di gen­mai­cha, il clas­sico tè verde giap­po­nese misce­lato con riso inte­grale tostato, accom­pa­gna da Doozo la con­ver­sa­zione con Miho Kajioka (Oka­yama 1973), che è a Roma in occa­sione di Layers, la sua prima per­so­nale ita­liana da Micro­pri­sma (fino al 17 gen­naio 2015).

L’artista giap­po­nese, che nel 2013 ha vinto il Pre­mio Foto­leg­gendo ed è stata fina­li­sta al Port­fo­lio Ita­lia di Bib­biena, rea­lizza pre­va­len­te­mente imma­gini di pic­colo for­mato e in un bianco e nero quasi rare­fatto, tal­volta virato in sep­pia, che sus­sur­rano e non gri­dano.
Par­tiamo dal titolo della mostra «Layers», strati…
Nel 2011, men­tre stavo lavo­rando per una tv bra­si­liana — sono gior­na­li­sta tele­vi­siva, fac­cio que­sto lavoro da oltre dieci anni — in un blog ho tro­vato una sto­ria che mi ha col­pito. Si par­lava di pavoni rima­sti nella zona eva­cuata, all’interno della fascia dei venti chi­lo­me­tri da Fuku­shima. Ho imma­gi­nato quei mera­vi­gliosi pavoni che cam­mi­na­vano in quei luo­ghi vuoti, abban­do­nati della città. Un’altra realtà, altri stati flut­tuanti della sto­ria. Ecco per­ché ho scelto Layers, un titolo per­fetto per rap­pre­sen­tare il mio stesso stato d’animo dopo l’incidente di Fuku­shima. Mi chie­devo in che modo avrei potuto rac­con­tare quella «visione». Il nucleare, l’anti-nucleare, le inter­vi­ste con la gente… non era una cosa sem­plice. C’erano parec­chi ele­menti — strati, appunto — dif­fe­renti.
Una delle ragioni per cui  ha ini­ziato a foto­gra­fare, nel 2011, è stato dare libero sfogo alle sue emo­zioni. È così?
Quando si lavora per la tele­vi­sione biso­gna essere neu­tri, si devono met­tere da parte le pro­prie opi­nioni. Ma quello che è suc­cesso a Fuku­shima, e anche in seguito, è stato così forte per me, dal punto di vista emo­tivo, che men­tre inter­vi­stavo le per­sone tal­volta mi è capi­tato di pian­gere senza riu­scire a fer­marmi. Ascol­tavo sto­rie così ter­ri­bili e dram­ma­ti­che, senza solu­zione, che mi ren­de­vano fru­strata e anche arrab­biata. Den­tro di me, con­vi­ve­vano diversi strati di emo­zioni. Ma tutto que­sto fer­mento inte­riore non era adatto per le news tele­vi­sive: dovevo tro­vare un’altra forma per resti­tuire tutto ciò che avevo inca­me­rato. Potevo farlo con l’arte.
Lei ha stu­diato pit­tura e foto­gra­fia al San Fran­ci­sco Art Insti­tute e alla Con­cor­dia Uni­ver­sity di Mon­tréal. Come mai?
Avevo solo dician­nove anni quando sono andata a San Fran­ci­sco per stu­diare arte. Sono nata e cre­sciuta in Giap­pone, un paese che, a quei tempi, era tra i più ric­chi del mondo. Non mi ero mai posta il pro­blema della fame e di qual­siasi pre­oc­cu­pa­zione per il futuro. In un certo senso, ero viziata, cir­con­data da pace e sicu­rezza. Ma a San Fran­ci­sco, nella scuola d’arte, c’era tanta gente pro­ve­niente da paesi diversi e di tutte le età. Ricordo, in par­ti­co­lare, una ragazza ira­niana e, nella mia stessa classe, una signora che stu­diava pit­tura: aveva sessant’anni e era fug­gita dalla Jugo­sla­via per via della guerra. Ascol­tando le dif­fe­renti espe­rienze, ho capito quanto io fossi for­tu­nata ma anche, nel bene e nel male, naïf. Sen­tivo che avevo tanto da impa­rare, a comin­ciare dalla mia stessa cul­tura.
Anche altri arti­sti, per esem­pio Hiro­shi Sugi­moto, sono entrati in con­tatto con la cul­tura di ori­gine dall’esterno…
A San Fran­ci­sco mi chie­de­vano se cono­scessi la cul­tura zen, la ceri­mo­nia del tè, Mishima, i film di Kuro­sawa e Ozu… ma io non sapevo nulla. È stato il primo gra­dino per appren­dere qual­cosa sulla sto­ria e cul­tura del mio paese. Credo che, avendo perso la seconda guerra mon­diale, il Giap­pone fosse diven­tato una colo­nia degli Stati Uniti. L’America voleva can­cel­lare la nostra sto­ria e tra­di­zione: hanno pro­vato real­mente ad eli­mi­nare dalle scuole i nostri miti, le sto­rie tra­di­zio­nali. Per due anni hanno proi­bito le rap­pre­sen­ta­zioni pub­bli­che di tea­tro Kabuki. In qual­che modo ci sono riu­sciti: ancora oggi molte per­sone non hanno mai assi­stito a uno spet­ta­colo di Kabuki o di tea­tro No. Comun­que, pro­prio men­tre ero negli Stati Uniti, la mia arte è entrata in real­zione stretta con la mia cul­tura di ori­gine. Dopo otto anni in Nor­da­me­rica, al mio ritorno in Giap­pone, ho perso com­ple­ta­mente l’interesse per quello che stavo facendo. Non sapevo cosa fare e ho ini­ziato a lavo­rare come gior­na­li­sta. Dopo dieci anni, in seguito all’incidente di Fuku­shima, ho riac­qui­stato con­sa­pe­vo­lezza, tro­vando una con­nes­sione tra la tra­di­zione e l’arte con­tem­po­ra­nea.
La pit­tura e, soprat­tutto il dise­gno e l’incisione sono i lin­guaggi arti­stici che sente più vicini. Invece, la foto­gra­fia?
Facevo soprat­tutto dise­gni a car­bon­cino e inci­sioni, per­ché con­si­de­ravo la foto­gra­fia troppo facile. Ma, poi, casual­mente — ero arri­vata tardi e gli altri corsi erano già pieni — l’ho stu­diata e mi ha cam­biato la vita. A San Fran­ci­sco il mio inse­gnante era Pir­kle Jones. All’epoca era già molto anziano, era stato assi­stente di Ansel Adams. Con lui ho appreso che la foto­gra­fia richiede molta pre­pa­ra­zione e lavoro. Ci disse subito che non era era impor­tante avere una mac­china foto­gra­fica costosa, pote­vamo usare qual­siasi appa­rec­chio. Poi, una volta finita la pel­li­cola, dove­vamo pro­vare a svi­lup­parla e a stam­pare. La tec­nica era basi­lare, si trat­tava di stampa a con­tatto. Ricordo ancora la sen­sa­zione di magia che ho pro­vato in camera oscura, la prima volta che ho messo la carta nell’acido dello svi­luppo. Con­ti­nuo a pro­vare la stessa sen­sa­zione ancora oggi.
Il suo lavoro è molto vicino a quello di Masao Yama­moto…
Sì, mi piace il suo modo di tro­vare oggetti. Non cerca qual­cosa di spe­ciale andando in posti fuori dall’ordinario. Ripone molta atten­zione nello sguardo. Una tazza come que­sta (Miho indica la tazza del tè sul tavo­lino, ndr), lui la osserva da diverse pro­spet­tive, la guarda e riguarda fin­ché non scatta la foto­gra­fia.
Nelle sue foto­gra­fie, ven­gono iso­lati fram­menti del reale che sem­brano sospesi come haiku…
Credo che que­sto fac­cia parte della cul­tura giap­po­nese. Lasciamo che le cose siano sospese, senza giu­di­care o ana­liz­zare. C’è un famoso haiku di Basho — furuike ya kawazu tobi­komu mizu no oto — che parla di un vec­chio sta­gno, di una rana che vi salta den­tro, del suono dell’acqua. Non viene espresso alcun giu­di­zio. È anche la mia dichia­ra­zione arti­stica: in pri­ma­vera i fiori, in estate il cre­pi­tìo, in autunno la luna, in inverno la neve. Tutto ciò che vediamo. Non affermo che la luna è bella, dico solo che è la luna, lo stesso con i fiori… Noi giap­po­nesi lasciamo le cose così come sono e aspet­tiamo, goden­done a una certa distanza.

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ilmanifesto.info –Miho Kajioka.