Al via il maxiprocesso: ecco i testimoni che dimostrano la legge violenta del Cecato – l’Espresso
5 Novembre 2015espresso.repubblica.it/ – Al via il maxiprocesso: ecco i testimoni che dimostrano la “legge violenta” del Cecato. I minacciati di morte da parte del Cecato raccontano le loro paure: dai polli squartati appesi alle porte, ai pestaggi, alle intimidazioni verso mogli e figli. Ma per i difensori “Questa non è mafia”. Una storia di negazionismo evidente purtroppo già vista in Sicilia e in Calabria che ora si ripete a Roma – di Lirio Abbate
è aperto a Roma il dibattimento del processo al clan di Massimo Carminati, chiamato mafia Capitale. E naturalmente, come avviene in tutti i processi di mafia che si svolgono in Sicilia o in Calabria, le prime dichiarazioni sono quelle degli avvocati degli imputati che come un mantra ripetono, da difensori dei loro clienti, che secondo loro «la mafia non esiste». E lo hanno detto anche stamani sulla soglia dell’aula del tribunale. E di conseguenza scaricano “colpe” o “responsabilità” sui giornalisti che secondo loro «vedono la mafia ovunque» o sui magistrati che «vogliono fare un processo mediatico».
L’avvocato ‘Carminati parlerà in Aula’
Foto Arrivano gli avvocati per il maxiprocesso
Le minacce di Carminati “Tu non sai chi sono ioRoma Il ‘libro Magno’ del marcio Capitale
Storie di negazionismo evidente purtroppo già visto. Dunque, per chi questi processi di mafia li ha già seguiti da cronista, è un copione già vecchio che si ripete ogni volta si apre un nuovo processo importante di mafia. Qui si è aggiunta anche la scusa avanzata da alcuni avvocati di sostenere «l’impediamento alla difesa» provocato dalla video conferenza a cui sono sottoposti i propri clienti. Videocoferenza prevista per legge nei processi per mafia, in particolare per chi è sottoposto al 41 bis, il duro regime carcerario riservato ion questo caso a Massimo Carminati. Il suo avvocato, forse poco avezzo a questi processi, si è lamentato di non poter essere al fianco del cliente. Ma la legge è legge. E dunque, se vale per i sciliani e i calabresi, oppure per i Fasciani, di Ostia, dovrà valere anche per il clan del Cecato.
Il dibattimento ai 46 imputati si apre in tempi record per la giustizia romana, a meno di 11 mesi dal momento dell’arresto. Le storie e i fatti contestati agli imputati dovrebbero dare una sveglia ai romani facendo vedere meglio quanto è violenta e pericolosa la “legge del Cecato”.
Il processo riserverà un grosso capitolo proprio alla violenza e al silenzio: i due volti della paura, i due volti del potere costruito a Roma da Carminati. Negli atti processuali sono finiti episodi raccapriccianti. Si va dai polli squartati appesi alle porte delle case ai pestaggi in pieno centro e alle minacce verso mogli e figli.
Una ragnatela di intimidazioni che serviva a terrorizzare gli imprenditori e i commercianti caduti nella morsa del clan di mafia Capitale. L’indirizzo che spaventava di più era il distributore Eni di corso Francia, la base del “Cecato”. Dove ogni incontro poteva finire con le ossa rotte. C’era chi veniva convocato o chi era trascinato a forza nella corte dell’ultimo re di Roma, che di nobile però non aveva nulla.
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Riccardo Manattini, imprenditore di 63 anni, è uno dei pochi ad avere messo a verbale il calvario durato anni. Spiega agli inquirenti di aver conosciuto Carminati e due dei suoi fidati colonnelli, Riccardo Brugia e Matteo Calvio, proprio nella stazione di servizio. «Mi sono stati descritti nel 2012 come quelli che comandavano tutta Roma. Ero in difficoltà economiche, mi sono rivolto a loro».
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Nell’agosto 2014 arriva l’avvertimento: «Carminati si è avvicinato ed ha puntato l’indice della mano destra contro la mia faccia. Mi ha dato un colpo sul naso e poi ha detto “Non nominare più il mio nome in giro sennò ti taglio in due”. Poi si è girato e si è allontanato senza darmi modo di rispondere. Il gestore del distributore, Roberto Lacopo, per impaurirmi mi ha detto che Carminati e Brugia avevano percosso con un cacciavite un imprenditore, procurandogli ferite al torace, solo perché aveva speso in giro il nome di Carminati per i propri affari».
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In cambio del prestito iniziale, la banda voleva da Manattini una cifra molto più alta: 250 mila euro. «Giovanni Lacopo (uomo del clan, ndr) si è presentato spesso a casa mia minacciando di morte me e i miei figli se non avessi restituito tutti i soldi che gli dovevo», racconta l’imprenditore. E aggiunge: «Una mattina della primavera del 2013 mentre mi trovavo a casa notavo che andava via la corrente elettrica. Sono andato a controllare i contatori nel cancello d’ingresso della mia villa e ho notato la presenza di due uomini di Carminati. Un mese dopo hanno fatto peggio. La mia compagna mentre tornava a casa, rientrando da scuola con i nostri figli, ha trovato un pollo squartato appeso all’ingresso della villa. La mia compagna e i miei figli che all’epoca erano piccoli, hanno avuto tanta paura che si è protratta per diverso tempo».
Ma le minacce non finiscono qui. «A maggio 2013 una persona mi chiama al telefono e mi invita a prendere un aperitivo in un bar di via Cola di Rienzo. Non conoscevo l’interlocutore e gli ho chiesto di cosa voleva parlarmi, ma l’uomo ribadiva l’invito. Accetto, e così arrivo davanti al bar e dopo aver sistemato la mia moto e tolto il casco sono stato immediatamente aggredito da un uomo alto circa un metro e 90 che mi ha iniziato a colpire ripetutamente al volto facendomi cadere a terra. Mentre ero sul marciapiede in via Cola di Rienzo ha continuato a colpirmi a calci ai fianchi e sulle costole».
Un pestaggio da Arancia Meccanica, in una delle strade più frequentate della Capitale: «Mentre ero per terra sanguinante e cercavo di ripararmi dai calci e dai pugni, ho notato che c’erano altre due persone che si preoccupavano affinché nessuno intervenisse in mia difesa. L’uomo che mi ha colpito, mentre si allontanava, lasciandomi a terra con le costole rotte e sanguinante, mi intimava con accento romano, di comportarmi bene e di saldare il debito».
Rispondendo alle domande degli investigatori, Manattini spiega: «Non ho denunciato il mio pestaggio perché avendo frequentato e conoscendo la caratura criminale di Carminati, Brugia, Calvio e Giovanni Lacopo, vivevo e vivo in un perdurante stato di terrore. Temevo che questa azione potesse produrre conseguenze peggiori per me e per la mia famiglia». Solo dopo l’arresto del clan, Manattini ha deciso di raccontare tutto: episodi che però i carabinieri conoscevano già in parte, perché registrati dalle loro microspie.
Un’altra vittima, Fausto Refrigeri, 47 anni, ha raccontato agli investigatori di essere stato più volte minacciato. Convocato nel distributore per saldare un piccolo debito di centinaia di euro, Roberto Lacopo lo affrontava brutalmente: «Io te rompo… tu me devi da’ li sordi. Perché tu non sai cosa te posso fa’ io». E poi rivolgendosi a Carminati che assisteva alla scena seduto su una panchina, Lacopo gli chiedeva: «Massimè che devo fa’…?». A questa domanda Carminati non rispondeva ma scuoteva la testa lasciandogli intendere di soprassedere.
La spregiudicatezza del clan si nota anche quando Brugia convoca un gioielliere dei Parioli. Gli intima di correre alla stazione di servizio per saldare
il suo debito. Il commerciante arriva in moto e porta con sé la figlia che è andata a prendere all’uscita da scuola. È una bambina e quando Carminati la vede commenta: «Questo
è una merda».
Brugia chiede al gioielliere: «Hai portato
la ragazzina apposta?». E poi ordina: «Portala dentro
al bar e lasciala ad Annalisa (un’impiegata, ndr)». Le telecamere dei carabinieri registrano l’ingresso del gioielliere con la piccola nel bar e poi Brugia che porta il commerciante nel retrobottega. Si sente Carminati che si raccomanda di non farsi vedere mentre lo picchia. Dopo alcuni minuti le immagini fanno
vedere Brugia che fa ritorno, seguito a distanza dal gioielliere che recupera la bambina
dal bar e poi si allontana.
Un altro imprenditore, Luigi Seccaroni, descrive l’estorsione per imporgli di vendere un terreno sulla Cassia: «Cercavo di tergiversare e farli desistere, ma questo generava un radicale cambiamento di atteggiamento che, col passare dei giorni, diveniva sempre più pressante e minaccioso tanto da indurmi uno stato di ansia e preoccupazione costante di pericolo per me e i miei cari». Seccaroni ricorda un episodio: «La mia soggezione raggiungeva l’apice quando minacciarono palesemente di incendiarmi l’azienda, di picchiarmi e di fare del male ai miei familiari. Ricordo che una mattina, mentre accompagnavo mia figlia a scuola, ho incrociato Carminati lungo corso Francia: ha iniziato a seguirmi, mi affiancava e mi guardava. La circostanza mi ha spaventato parecchio, tanto che sviavo lo sguardo e cambiavo corsia». Questa è mafia Capitale.
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