Al capezzale di Forza Italia
28 Marzo 2019Anche al San Raffaele fila di questuanti in cerca di rassicurazioni sul loro futuro. Breve viaggio nella fine di un regno
by Alessandro De Angelis
Al capezzale sono andati a trovarlo in parecchi perché il povero Berlusconi, ultimamente, non sta tanto bene. La scorsa settimana è stato operato d’urgenza per ernia, qualche settimana prima invece si è ricoverato, sempre d’urgenza, al San Raffaele, dopo che la glicemia ha toccato il picco di 800. Alto rischio, per intenderci. E lì è rimasto per giorni, attaccato a una flebo, in attesa che si ristabilissero valori normali. Accade così, a una certa età, con una vita sregolata. Perché l’uomo non ama stare a casa con un libro e un brodino. E ha ricominciato a frequentare la divertente compagnia che la sera si ritrova a Villa Maria, dove era stata confinata la Pascale, tornata assai in auge nel favoloso mondo berlusconiano, assieme all’altra “badante” dei tempi d’oro, Maria Rosaria Rossi. Un dolcetto in più, un bicchierino d’amaro o grappa, una notte passata fuori e ti ritrovi attaccato a una flebo.
Questo articolo, per gli amanti del genere, è breve viaggio nella fine del regno, che dopo il 26 maggio, è destinato a sgretolarsi senza neanche tanta gloria. Al capezzale – i diretti interessati lo negheranno, ma è gente che ha sempre avuto l’abitudine di smentire le notizie vere – si sono presentati l’avvocato Niccolò Ghedini e la Gelmini per perorare la causa della “rottura totale con Salvini”, perché “così non si va avanti”, “non può trattarci così”, e così via. Rottura nel senso di mettere fine alle alleanze che verranno e a quelle che ci sono, ovvero tutte le giunte del Nord.
All’uomo la testa funziona ancora, e non gli suonava tanto il ragionamento di fare, questa l’espressione molto usata da quelle parti, “una nuova traversata nel deserto”, come dopo la sconfitta nel 96 col ritorno nel 2001. Opposizione dura, durissima, al governo sovranista, alle giunte, a tutto, per poi tornare – chi ci sarà – a ciclo di governo finito. Parliamoci chiaro, è iniziato il grande girotondo attorno al letto del vecchio leader, col tema salute, fine, successione, sdoganato nei cinici ragionamenti dei suoi, tra chi lo spinge a candidarsi perché, in fondo, “se succede l’irreparabile” è una “sorta di effetto Berlinguer”, che nelle urne aiuta, e chi pensa alla “traversata nel deserto”, in verità immaginando il “dopo”, con un partito che, a quel punto potrà allearsi anche con il centrosinistra, senza più Berlusconi tra i piedi. È il girotondo – segnatevi questa previsione – in cui i laudatores di oggi saranno i becchini di domani, e proprio coloro che lo spingono oggi a salvare il salvabile perché “tu presidente sei l’unico”, il giorno dopo saranno i primi a dire che bisogna voltare pagina, perché stavolta non ci sono più alibi. Il 4 marzo, dopo la bruciante sconfitta, il Cavaliere aveva comunque un repertorio di scuse, sia pur poco credibili, perché “non ero candidato, ma il candidato era Tajani”, stavolta no, le urne diranno che è superato Berlusconi.
Ragionamenti che rivelano l’assenza di una comunità umana e l’essenza disumana del berlusconismo, in cui la cifra dominante è sempre stata la convenienza di ognuno verso gli altri. Ma poiché la convenienza di uno vale ancora più di quella degli altri, si capisce perché il Cavaliere ha pronunciato il suo “non rompo”. Non tanto perché ritiene che con Salvini si possa ricostruire l’alleanza, anche se il rapporto umano, tra i due, è buono. Matteo è stato tra i primi a chiamare al San Raffaele per informarsi delle condizioni di salute e i due hanno anche fatto due chiacchiere. Ma è la convenienza che sconsiglia gesti eclatanti, la fredda logica insita nel conflitto di interessi. È stato Confalonieri a rimanere esterrefatto per una linea “da kamikaze” verso Salvini. Questo il suo ragionamento: “E poi, come facciamo con le aziende? I Cinque Stelle ci vogliono morti, ci manca che ci mettiamo contro la Lega, poi chiudiamo ed espatriamo”.
È sempre stato così, l’azienda è filo-governativa per definizione, con delle sfumature. Perché Marina, invece, in questo momento è più sulla posizione del “papà, fai tu quel che ti senti di fare”. Nel rapporto con Salvini, ma anche più in generale sulla candidatura alle Europee che, in queste condizioni fisiche, non è proprio consigliata. Però il vecchio Silvio è convinto, per tutta una serie di motivi, nobili e meno nobili. Per l’indole, da sempre inclina alla pugna, per l’inguaribile ottimismo di chi pensa che, in fondo, la sua presenza in campo è l’unica chance per arrestare l’estinzione e raggiungere la fatidica soglia del 10 per cento, per bisogno di sentire un minimo di calore di chi gli batterà le mani, come sabato al Palazzo dei Congressi all’Eur. O perché l’avvocato Ghedini lo ha persuaso che, da parlamentare, potrebbe tornare alla carica sulla Corte europea di Strasburgo per ottenere la riabilitazione, o che, da parlamentare, potrebbe ricorrere al legittimo impedimento e allungare fino alle Calende greche i due processi che lo vedono coinvolto, a Bari sulle escort di Tarantini e a Milano sul Ruby ter, insomma per tutta una serie di buone ragioni.
Per ora, dunque, con Salvini si andrà avanti così, nell’ambiguità di chi fa finta che un giorno si potrà tornare insieme – cosa che nella testa del Capitano proprio non c’è – ma, poiché nel fantastico mondo berlusconiano non c’è nulla di definitivo, soprattutto in questo casino del momento, c’è da scommettere che l’episodio del capezzale, magari altrove, si ripeterà se, come pare, Salvini non darà il via libera alla candidatura di Alberto Cirio, l’europarlamentare uscente di Forza Italia. Non è affatto scontato, anzi, perché in una regione dove la Lega può vincere anche da sola è in atto una trattativa molto dura. L’altro nome, molto gradito al nome della Lega è Paolo Damilano, un grande imprenditore piemontese delle acque minerali, un “gran fico”, dicono i berlusconiani, rampante, viveur, potente, pieno di soldi, molto apprezzato ma la questione è diventata di principio, perché, secondo gli accordi, il Piemonte tocca a Forza Italia e il nome già indicato era Cirio.
Il Piemonte rischia di essere il detonatore di un “liberi tutti” annunciato. E se non è il Piemonte, ci sarà il 27 maggio. Giovanni Toti, che sabato non sarà a Roma, in campagna elettorale farà una iniziativa non col suo partito ma con la Meloni. E il giorno dopo le Europee lancerà la sua “rete arancione” per costruire, assieme a Fratelli d’Italia la famosa seconda gamba. L’emorragia è già in atto, consistente, perché non servono neanche i sondaggi che annunciano un bagno di sangue per Berlusconi – il rapporto dei voti con Salvini è 1 a 3 o 1 a 4 – per capire che è finita. Nel Lazio, i “macina-voti” di Forza Italia sono già nel partito della Meloni: Aracri, Augello, il sindaco di Frosinone. In Veneto se ne sono andati 35 amministratori e Forza Italia non ha più il gruppo regionale, in Calabria due consiglieri a Reggio e una 40 di amministratori in provincia. E così via. La Meloni ha la fila di parlamentari che bussano alla porta. Ci ha provato anche l’ex capogruppo Paolo Romani, senza grande successo. L’ultima battaglia, fuori tempo massimo, è più tragica che eroica perché l’esito è annunciato. Non c’è un solo indicatore che indichi “salute”: non c’è la politica, non c’è la forza del leader, non c’è un partito, non c’è più neanche la potenza di fuoco delle aziende, col primo sciopero al Giornale di famiglia che chiude la redazione romana e Mediaset che registra un fallimento nei palinsesti sull’operazione di Piersilvio, con un programma già chiuso, quello di Gerardo Greco e la striscia della Palombelli che non si sa se sarà confermata il prossimo anno. E Salvini trattato nelle trasmissioni e nei tg come un re, perché è meglio tenerselo buono.
Resta la domanda, che in parecchi continuano a rivolgergli: “Silvio, ma chi te lo fa fare?”. Non c’è risposta razionale. Se non una. L’indole. Marcello Dell’Utri, uno che lo conosce bene, lo ha sempre detto, in tempi non sospetti: “Il dopo Silvio non ci sarà. Finirà tutto con lui”.
sorgente: huffingtonpost.it