Bomba ecologica nel Nord Est: la mappa dei rifiuti radioattivi in Lombardia e Veneto
17 Aprile 2019 0 Di Luna RossaNel cuore produttivo del Paese c’è un rischio radioattivo poco noto e minimizzato. In Lombardia, soprattutto nel Bresciano, e in misura minore in Veneto, sono state fuse in fonderie e acciaierie fonti di Cesio 137, di Radio 226 e di Cobalto 60, arrivate quasi sempre dall’Est Europa. Erano nascoste in involucri di piombo infilati dentro i camion di rottami, in modo da sfuggire ai controlli. Una volta finiti nei forni hanno contaminato gli impianti di abbattimento fumi, le polveri, i lingotti di acciaio e di alluminio. L’apice degli incidenti negli anni Novanta. Ma succede anche oggi. L’ultimo allarme l’agosto scorso alle acciaierie Iro di Odolo, in Valsabbia.

La più grande discarica radioattiva d’Italia
Nel Bresciano oltre 86mila tonnellate si trovano ancora dentro le aziende o in discariche realizzate senza l’isolamento del fondo. E così i veleni hanno raggiunto la falda sottostante. È il caso della discarica Metalli Capra di Capriano del Colle, la più grande discarica radioattiva d’Italia, con ben 82.500 tonnellate di scorie al Cesio 137 che dormono all’interno di un parco agricolo regionale costellato di vigneti. Un’altra discarica più piccola si trova alle porte di Brescia città, sempre dentro un parco urbano di recente costituzione: è l’ex Cagimetal, con 1800 tonnellate di scorie sempre contenenti Cesio. In altri casi il materiale contaminato è rimasto dentro le acciaierie. Per evitare che incendi, terremoti o altre calamità inneschino un disastro ecologico, in diversi casi la prefettura di Brescia ha scelto come soluzione la realizzazione di bunker in cemento armato, dove stoccare polveri e tondini per due secoli, il tempo di decadimento del Cesio.


Le discariche della Lombardia
Non sono ancora state messe in sicurezza le 370 tonnellate di scorie che si trovano dentro la fonderia Premoli a Rovello Porro, nel Comasco. Sono lì dal 1990, quando venne fusa una partita di rottame contaminato comprato dalla società austriaca Almeta (che a sua volta lo importò dall’Est Europa). Per anni le istituzioni locali hanno sostenuto che non era il caso di allarmarsi, poiché si trattava di una contaminazione talmente bassa da non comportare rischi alla popolazione. Eppure l’ultimo report di Arpa Lombardia parla di cumuli di veleni e «fusti corrosi» conservati in pessimo stato, vicinissimi alle abitazioni ed al torrente Lura, che in caso di esondazione provocherebbe una catastrofe ecologica. Nel 1990 una partita di quello stesso rottame finì anche all’Astra di Gerenzano (Varese), dove oggi sono 320 le tonnellate in attesa di una soluzione definitiva. Come all’Eco-Bat Spa di Paderno Dugnano (Milano), dove nel 2015 si è fusa una fonte di Radio 226, stesso isotopo che nel 2011 ha contaminato anche la Intals Spa di Parona (Varese). Problema: i soldi per questi interventi non ci sono.
I due casi in Veneto
Nell’elenco ufficiale dei siti a bassa radioattività c’è quasi esclusivamente la Lombardia, ma solo perché qui si trova oltre la metà delle fonderie italiane e quindi è statisticamente più alto il numero di incidenti rilevati e potenziali. Maurizio Pernice, direttore di Isin — l’ispettorato nazionale per la sicurezza nazionale operativo dall’agosto 2018 — si dice «stupito» dall’assenza di segnalazioni da parte di altre regioni. Fa eccezione il Veneto. Qui il primo incidente radioattivo mappato risale addirittura al 1974. Nell’azienda ospedaliera universitaria di Verona ben cento tonnellate di materiale sanitario venne contaminato da aghi di Radio 226. Visti gli ingenti quantitativi e un livello di radioattività più alto del solito il materiale è rimasto stoccato nel magazzino dell’ospedale, non finendo così nei venti depositi temporanei presenti in Italia, che accolgono le scorie a bassissima radioattività prodotte quotidianamente da ospedali e industrie. Più inquietante l’episodio del 2004 verificatosi alle Acciaierie Beltrame di Vicenza: il materiale radioattivo era arrivato dalla Italrecuperi di Pozzuoli specializzata nella raccolta di materiale ferroso, che a sua volta lo aveva acquistato da una ditta statunitense di Cincinnati (Ohio), la Ohmart, produttrice dell’isotopo per usi industriali. Il copione è sempre lo stesso: fonte radioattiva nel forno, contaminazione, sequestro, stoccaggio e anni d’attesa per capire il da farsi. Già, perché il famoso deposito unico nazionale, autorizzato dal 2001, e in cui confluire tutte le scorie radioattive provenienti dallo smantellamento delle centrali, centri di ricerca, ospedali, industrie, ancora non c’è.

I fondi insufficienti e le quattro priorità
La messa in sicurezza delle scorie radioattive viene pagata da tutti gli italiani con accise presenti nelle bollette della luce. Lo Stato fino ad oggi ha riservato tutte le risorse (3,7 miliardi) alla gestione e allo smantellamento delle quattro ex centrali nucleari, dei cinque reattori di ricerca e dei quattro impianti sperimentali, il cui potere radioattivo è 40 mila volte superiore ai siti a bassa radioattività. Dopo quasi 20 anni quello smantellamento non è nemmeno a metà strada. Intanto sono decine le discariche contaminate sparpagliate in tutto il Paese.

La via bresciana dei bunker, una spesa doppia
Se per le due discariche del Bresciano i tempi di intervento si annunciano biblici, la strada maestra per mettere in sicurezza le scorie radioattive presenti nelle altre acciaierie è quindi la creazione di altri bunker. Che hanno un costo. Quello realizzato alle Acciaierie Venete di Sarezzo — in grado di resistere anche all’impatto di un camion in corsa e con una durata garantita di 300 anni — è costato mezzo milione di euro. L’Italia entro il 2025 deve individuare un deposito nazionale per le scorie radioattive, ma nessuna regione lo vuole, e ora si sta trattando con la Slovacchia. Nell’attesa costruiamo bunker dentro le aziende. In conclusione: i problemi si raggirano, si tappano le emergenze quando non si possono più nascondere, si sprecano tante risorse. Mentre le ricadute sulle conseguenze di veleni senza odore e colore, andranno ad incrementare le statistiche oncologiche. Tanto nessuno sarà mai in grado di ricondurre l’effetto alla causa.